Il figlio accusa: «Mio padre condannato senza processo»

RomaÈ anche lui portiere, come il papà che dal vecchio mestiere non ha avuto che dispiaceri. Lavora a Torino, custode di uno stabile dell’elegante quartiere della Crocetta. «Mio padre è stato condannato senza un processo - accusa Mario Vanacore - lo hanno distrutto, lo hanno fatto a pezzi. Sono passati vent’anni, eppure tutte le volte che si è parlato della mia famiglia è stato solo per massacrarci». Anche lui, del resto, era stato sfiorato dall’inchiesta, per colpa di una visita di cortesia fatta al papà il 2 agosto del ’90, prima di partire per le vacanze con la moglie Donatella e la figlia di pochi mesi. Tanto bastò per ricevere un avviso di garanzia, assieme alla mamma Giuseppa De Luca, affinché i magistrati potessero comparare il suo sangue con quello di una traccia ematica trovata sulla porta dell’ufficio di Simonetta. «Hanno reso la vita di mio padre un inferno - continua Mario Vanacore - aveva tanti progetti, voleva comprare una casa, ma ha dovuto utilizzare tutti i risparmi che aveva per pagarsi gli avvocati. Lo hanno massacrato ingiustamente perché lui era innocente».
Venerdì padre e figlio avrebbero dovuto testimoniare in aula al processo per la morte della Cesaroni. Accanto a Pietrino ci sarebbe stato il legale di sempre, Antonio De Vita. «Si sentiva braccato - racconta il penalista - vittima di una continua caccia all’uomo. Non aveva più una sua vita da tanto, troppo tempo. Si sentiva come un detenuto al 41 bis. Lui era un uomo libero, eppure non più libero. Non era la nuova chiamata dei giudici ad intimorirlo, piuttosto il fatto di doversi nuovamente sentire braccato, accerchiato dai media. Vanacore era psicologicamente stressato e si riteneva perseguitato, un uomo senza scampo, anche se su di lui non c’erano più sospetti». «La morte di Vanacore è troppo vicina alla scadenza processuale per non essere collegata», dice Paolo Loria, avvocato di Raniero Busco, ex fidanzato di Simonetta e unico imputato nel processo. Il legale dei Cesaroni, Lucio Molinaro, ci tiene invece a sottolineare che la famiglia «non ha mai esercitato pressioni su Vanacore, neppure quando è stato arrestato». «L’esito di questa sua decisione disperata - conclude dunque l’avvocato - non può essere collegata a noi e neppure ai magistrati». Impossibile per il penalista non osservare che comunque «chi non ha veramente altro da dire non soffre».

«Se avesse voluto - conclude Molinaro - si sarebbe potuto liberare di questo tormento interiore». «Umana compassione» è stata espressa da Italo Ormanni, uno dei magistrati che ha indagato sul delitto. Ma nessun senso di colpa. «Parlare di 20 anni di sospetti - osserva - è una sua valutazione molto personale».

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