Il figlio di Vanacore: «Mio padre indotto al suicidio dopo 20 anni di martirio»

Parla a Matrix il figlio del portiere dello stabile di via Poma 2, dove venne uccisa Simonetta Cesaroni: «Sono sicuro che mio padre non sapesse nulla del delitto. Il fatto che i giudici avessero chiamato anche me a testimoniare ha influito molto su quello che ha fatto».

Suo padre si è ucciso perché non ce la faceva più a sentirsi tirato in ballo ogni volta che sui giornali si parlava del delitto di Simonetta Cesaroni. Lui che di quell'omicidio, diceva, non sapeva più di quanto raccontato agli inquirenti. Per questo la notte tra l'8 e il 9 marzo scorsi il portiere Pietrino Vanacore si è tolto la vita in mare, in località Torre Ovo, vino Torricella, in provincia di Taranto. Tre giorni dopo avrebbe dovuto testimoniare davanti alla Corte d'Assise che sta processando per l'omicidio l'ex fidanzato di Simonetta, Raniero Busco. Il figlio Mario Vanacore si è fatto un'idea precisa di cosa abbia spinto il papà a suicidarsi. Lo ribadisce davanti alle telecamere di Matrix: «Sicuramente è stato indotto al suicidio da questi 20 anni di martirio che ha dovuto sopportare: si indagava su altri, si accusavano altri, ma Vanacore c'era sempre, non ce la faceva più». Poi, quando i giudici hanno chiamato a testimoniare anche lui, Mario, il crollo definitivo: «La mia convocazione - racconta il figlio di Vanacore - lo ha fatto star male, ha influito molto su quello che ha fatto». Mario dice di essersi deciso ad andare in Tv per il genitore che non c'è più: «Sono qui per lui - dice - quello che ha fatto lo ha fatto anche per difendere la famiglia, pensava di averci coinvolto involontariamente». È convinto che Pietrino non sapesse davvero nulla di quanto accaduto in via Poma quel 7 agosto del 1990. «Gliel'ho chiesto più volte», racconta. Ed è per questo che non ha mai digerito l'appello che Busco fece a suo padre prima che si togliesse la vita affinché raccontasse tutto quello che sapeva sul delitto della Cesaroni. «Spero che Busco non sia una povera vittima come è stato mio padre - dice - devo dire che non mi piace che scarichi la colpa su di lui e dica che si è portato nella tomba qualcosa».
Mario Vanacore parla poi di Salvatore Volponi, il datore di lavoro di Simonetta. Figura chiave del processo, anche se in aula non è ancora venuto a testimoniare, avendo rinviato più volte l'appuntamento con i giudici per motivi di salute. Il figlio di Pietrino ribadisce che Volponi, contrariamente a quanto sempre sostenuto, conosceva lo stabile di via Poma, sapeva che l'ufficio degli Ostelli della Gioventù dove lavorava la vittima era in quel palazzo del quartiere Prati alle spalle di piazza Mazzini. Era presente anche lui, allora trentenne, alle ricerche di Simonetta. C'era quando Volponi entrò nell'ufficio e vide il cadavere: «Volponi è entrato, ha fatto un giro nella prima stanza senza accendere le luci e ha detto "non c'è nessuno, non c'è nessuno".

La mia matrigna (Giuseppina De Luca, la seconda moglie di Vanacore, ndr) ha detto "guardi che l'ufficio è molto grande, guardi anche nelle altre stanze. Così è andato giù per il corridoio, a destra. Dopo è tornato e ha detto: "bastardo". Non so a chi si riferisse, ma sono sicurissimo, ha detto bastardo».

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