Fine di un amore

Dicono che sia il Massimo del governo. E forse è vero. Ma questo la dice lunga su come sono gli altri. Povero D'Alema: l'estate scorsa, quand'era sulla Ikarus, alzava la voce al telefonino per farsi sentire dai pescatori di Marettimo. «Bye Bye Condi», si pavoneggiava. Ma chissà, forse dall'altra parte del telefono c'era sua cugina. Perché, in effetti, ora viene naturale chiedersi: tutta questa ostentata confidenza con la Rice dov'è finita? Al Dipartimento di Stato Usa l'hanno trattato come un venditore di tappeti porta a porta: si accomodi, buon uomo, se ha fame le offriamo un piatto di minestra, ma poi ci lasci in pace che dobbiamo pensare alle cose serie. Bye bye Massimo. Fra il D'Alema che discettava di scenari planetari a Marettimo e quello che si aggira in queste ore furioso per i corridoi della Farnesina, c'è solo una cosa in comune: tutti è due sono palesemente in barca.
In effetti il viaggio negli Stati Uniti del nostro ministro degli Esteri sembra una sceneggiatura dei Vanzina. Ci vorrebbero Christian De Sica e Massimo Boldi, per raccontare la mitica scena del nostro Massimo ricevuto dalla Rice. Lui le spiega i retroscena della liberazione di Mastrogiacomo ed esce fuori col sorriso: «Tutto chiarito, hanno capito». Poi prende l'aereo, nemmeno il tempo di tornare a casa. E da Washington cominciano a spararci addosso a pallettoni incatenati. Tutto chiarito che? «Non approviamo, errore, pessima idea». A questo punto c'è solo da augurarsi che D'Alema non debba mai chiarire nulla con Ahmadinejad, se no dopo dieci minuti l'Iran ci bombarda con l'atomica.
È un peccato, perché lui, D'Alema, ci tiene un sacco a questo suo nobile profilo di statista galattico. Quello che fa lezioni in America Latina, osserva il mondo dall'angolatura di Hong Kong. Disprezza le beghe dei mussi di cortile e vola alto tra Nuova Delhi, Caracas e Dow Jones, soprattutto da quando gli hanno spiegato che Dow Jones non è un sobborgo di Boston. Non parlategli di Angius e terza mozione, guai a citargli il collegio di Gallipoli e l'ascesa di Veltroni: a lui interessano il multilateralismo, il fondamentalismo, l'europeismo, temi alti. Ormai è fatto così, trasforma tutto in ismo: al mattino va in bagno e sotto la doccia discetta dei difetti del bagnoschiumismo. Si siede a tavola e mentre mangia affronta i grandi temi del prosciuttismo. Tutto ciò che sta sotto l'Onu gli sta stretto, lo classifica con disprezzo «bega da cortile», pettegolezzo che va bene al massimo per i suoi nemici «iene dattilografe», non certo per lui, erede di Cavour e Rattazzi. Uno che anche quando si soffia il naso è per aver un respiro internazionale. Anzi, internazionalismo.
E quindi immaginate che sofferenza dev'essere stata scoprire che lui, proprio lui, il Massimo statista, era riuscito a farsi capire dagli americani quanto un sordomuto riesce a farsi capire da un cieco. La telefonata irritata di Prodi: «Ma non ci avevi parlato tu con la Rice?». L'imbarazzo sotto i baffetti, l'umiliazione, i dubbi crescenti: «Sarà l'inglese che non funziona? Mi devo iscrivere a un corso accelerato allo Shenker? Mi compro le dispense "English In" della De Agostini»? E poi una giornata attesa ad aspettare la telefonata della Condi come una quindicenne aspetta all'edicola il poster di Scamarcio. Chiama? Non chiama? Mi dirà ancora bye bye?
La Rice s'è fatta attendere. Si capisce. Prima aveva il Senato, poi qualche riunione, poi il tapis roulant. «Condi ti cerca D'Alema». «D'Alema chi?». «Ma sì, quello che è venuto qui l'altra sera». «Ah già: parlava di baseball, vero?». «No, Condi, parlava di Afghanistan». «Di Afghanistan? Ma che diceva? Va beh, finisco lo stretching, vado dal parrucchiere e poi se mi avanzano due minuti lo chiamo». Nel frattempo il Dipartimento di Stato ribadisce ufficialmente: dell'accordo fra Roma e Kabul sulla liberazione dei talebani non sapevamo nulla. E il dubbio è: se D'Alema non è riuscito a spiegarsi andando di persona negli States, come farà a spiegarsi con una telefonata? Pare che nel corso del colloquio si sia parlato di un documento che preveda norme comuni fra Usa e Italia in caso di rapimenti. Prima regola: comprare un dizionario inglese-italiano Zanichelli.
Oddio, povero Massimo. Illustrare al resto del mondo la politica italiana non dev'essere facile. Prendiamo a bastonate i pensionati e facciamo accordi con i terroristi. Andiamo a braccetto con gli Hezbollah, organizziamo le amorevoli telefonate Bobo Craxi-Hamas, strizziamo l'occhio alla cosiddetta resistenza irachena, stringiamo accordi scellerati con i talebani. Gli unici con cui mostriamo il polso fermo sono i contribuenti italiani. Ormai anche la moderata Merkel e il laburista Blair hanno qualche problema a capirci, figurarsi gli americani. Così le figuracce sono al Massimo.
Il finale è triste e solitario, come un romanzo di Soriano. Nonostante la acclarata bravura e quel po' di prosopopea del ministro (prosopopea che resiste a bicamerali, cadute e ripetute crisi di governo), la prossima volta che la Farnesina chiederà un incontro ufficiale, c'è infatti da scommettere che la Rice come minimo scapperà alle Galapagos, si troverà un impegno nei pressi di Honolulu, organizzerà una imperdibile visita ufficiale a Turks e Caicos.

E poi finirà così, con una telefonata transoceanica e le inevitabili «differenze di vedute», acuite dal fatto che al telefono è difficile parlarsi a gesti. A gesti inglesi, soprattutto. Poi D'Alema, non avendo capito nulla, commenterà: «Nessuna rottura». E la Rice, invece, avendo capito tutto, commenterà: «Che rottura».
Mario Giordano

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