Flores D'Arcais: dal carro del Psi alla "religione delle manette"

Il filosofo di Micromega, ora paladino delle toghe e contestatore dei politici, negli anni è passato dal Pci ai socialisti, dal Pds all’Idv. Litigando con tutti

Flores D'Arcais: dal carro del Psi  
alla "religione delle manette"

Nobile di antico rango, i marchesi Flores, già giovane trotzkista e testa (calda) del sessantotto romano, il filosofo di Micromega (che prende la prima metà del nome dalle proporzioni delle copie vendute e la seconda da quelle dell’ego del suo creatore) ha tenuto sempre ben presente la dottrina comunista secondo cui l’intellettuale deve guidare i lavoratori, tenendosi ben alla larga dal lavoro per dedicarsi piuttosto alle alte sfere della speculazione filosofica. Il profeta della manetta, il Platone delle procure, l’oltranzista sempre in disaccordo con la politica mai all’altezza della sua Repubblica platonica, Paolo Flores D’Arcais ha però sempre navigato costeggiando a vista i partiti. L’ultimo dei suoi parti intellettuali, il Pdsp, Partito dei senza partito, non ha visto la luce per evidente contraddizione in termini, ma per il resto il marchese rosso (o viola) si è sempre dato da fare. Prima comunista, poi socialista prima di scoprire (indignandosi) che i socialisti tendevano a occupare poltrone se gliele offrivano, il filosofo ha poi volteggiato tra le varie consustanziazioni della sinistra-movimentista italiana, più o meno fortunate, con cui ha però finito sempre inevitabilmente per litigare: la Rete di Leoluca Orlando, i Verdi, i Radicali, il Pds di Occhetto, il Pd, e da ultimo l’Idv di Di Pietro, che - tanto per capirci cosa succede quando appoggia un partito - lui vorrebbe sciogliere.

La sua filosofia politica è riassumibile in un assioma fondamentale: la magistratura è la depositaria assoluta del Bene pubblico. Da qui l’amore per l’ex pm Tonino e in generale per Tangentopoli, da lui definita sobriamente (citiamo da un memorabile ritratto che gli fece Giancarlo Perna sul Giornale) come «l’inchiesta che non ha eguali nell’intera storia giudiziaria quanto a garantismo verso gli imputati, cautela nelle indagini e ossessione nel procedere solo sulla base di prove incontrovertibili». Eppure Flores D’Arcais era stato socialista, scoperto da Claudio Martelli, ma comunque nell’orbita di Craxi, però - spiegò più avanti in modo poco cartesiano - «fui craxiano solo quando Craxi era anticraxiano». Ovviamente.

Eppure, chi lo frequentava all’epoca - fine anni ’70 - nelle riunioni del Psi, ricorda che «era estremamente voglioso di essere preso in considerazione, al ristorante si metteva sempre seduto vicino a Bettino, provocando ovviamente la reazione infastidita di molti presenti, e probabilmente anche dello stesso Craxi che si ritrovava vicino quel contestatore». Contestava già, Flores, sempre, eppure il Psi lo manteneva come testa fine in qualità di direttore del Centro culturale Mondoperaio, emanazione del partito. «Quando Flores non era più d'accordo sulla linea Craxi, continuava comunque a fare il direttore del centro culturale» racconta un socialista di allora.

Fu anche chiamato a curare una sezione della famosa Biennale del dissenso, quella di Ripa di Meana, dove il giovane intellettuale curò la sezione sugli artisti dissidenti dell’Est (sposò anche una dissidente polacca, matrimonio poi andato male). «Il Mondoperaio di Flores D’Arcais ci costava molto, ma a fronte di quella spesa non era granché in termini di produttività» ricorda oggi Rino Formica, ex ministro delle Finanze socialista. Il circolo in effetti veniva finanziato integralmente dal Psi, e in precedenza Formica si era espresso in modo meno calibrato sulla questione («Ma quanto c..zo costa questo intellettuale!», citato sempre da Perna). «Il circolo entrò in crisi rapidamente - ricorda adesso Formica -. Era nato come progetto per contrastare sul piano culturale l'egemonia dominante comunista, ma l’operazione non riuscì». In compenso Flores riuscì a contrastare sul piano culturale il Psi, suo editore, accusandolo di inseguire solo le poltrone. Venne cacciato, e trovò soddisfazione con una rivista tutta sua, ma sempre finanziata da altri (stavolta il Gruppo Espresso).

I socialisti di allora lo ricordano come l’eterno bastian contrario, mai contento. «Era un estremista», ricorda Formica. «Pensava di essere lui a guidare la linea politica del Psi di allora, mentre invece il partito andava verso il compromesso storico» ricorda un altro esponente di quel tempo. In realtà Flores era completamente fuori linea rispetto al Psi. I suoi trascorsi del resto non erano stati all’insegna del compromesso e della moderazione. Quando Panorama scrisse, confondendosi, che Flores aveva scritto su Lotta continua, lui replicò furentemente precisando che non aveva mai scritto sul foglio estremistico. È vero, in quegli anni dirigeva una rivistina di taglio e cucito, Soviet.

Il floresdarcaismo si comporta come un virus nei partiti in cui si inocula. Li sposa, ci entra dentro, e poi cerca di distruggerli dall’interno denunciandone la sporcizia e l’immoralità interna, parlando dal pulpito della rettitudine assoluta. Così fece col Pci, che lo cacciò, così col Psi, che fece altrettanto. Nel 2008 dichiarò di aver votato Pd, «per non vedere trasformare la democrazia italiana in una gemella di quella di Putin», salvo poi attaccare violentemente Veltroni e poi tutto il Pd, e buttarsi sull’Idv di Di Pietro, a cui ha recentemente chiesto di liquidare il partito.

Ma è stata Tangentopoli a cambiare corso ai pensieri di Flores, divenuto da lì il marchese delle manette e il padre dei girotondi (con il suo vecchio amico Nanni Moretti, nel cui Io sono un autarchico avrà anche una piccola parte). Eppure in passato, oltre ad essere stato socialista, aveva addirittura criticato la magistratura. Alla fine degli anni ’70 Flores prese a cuore la causa dei «compagni che sbagliano», nei processi contro i vari Toni Negri e Oreste Scalzone. Usando contro i pubblici ministeri parole che, conoscendolo oggi, si fatica a credere sue: «Per condannare gli untori di manzoniana memoria bastava la parola di un vicino di casa, mentre ogni delitto va provato al di là di ogni ragionevole dubbio».

Oppure: «Il carcere deve seguire l’esibizione di prove, non essere strumento per ricercarle».

O anche: «Il pm può condannare (di fatto) al carcere senza controlli, senza dibattimento, senza doversi sottoporre al vaglio delle controargomentazioni della difesa. Questo è scandalo giuridico». Non aveva ancora conosciuto Di Pietro.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica