Il folle sorriso del teatro «totale»

Un’antica storiella zen narra di un vecchio che soleva aggirarsi al tramonto con il suo tamburo, dal quale traeva sonorità incredibili, che neppure parevano umane. Alla domanda su chi fosse e che cosa significasse quella sua musica, l’uomo soleva rispondere soltanto: «Io sono il tamburo».
Nulla ha a che vedere con la storia zen, lo spettacolo in scena al teatro Vascello fino al 23 dicembre, se non che il protagonista dica di sé, forse inconsapevolmente, «io sono il mio tamburo e mi suono al ritmo mio». Il fenomeno in questione è uno degli autori più originali del panorama teatrale, uscito ormai da tempo dal circuito «off» o «underground», che dir si voglia. Si chiama Antonio Rezza e, per chi già lo conosce, null’altro si può dire che Rezza è Rezza. Null’altro.
Non un giullare di corte, anche se la sua arte ultramoderna è antichissima, e l’artista si dimena, strepita e corre per il palcoscenico in cerca di un filo logico. Non è neppure, se vogliamo, un attore nel senso classico e chiuso in schemi consolidati. Gli manca ancora lo spessore di un Carmelo Bene del Nuovo millennio, di sicuro. Ma Rezza è teatro riportato all’origine, folle sorriso che si fa smorfia ancestrale, teatro «totale». Teatro nell’accezione greca del «teatromai»: gusto di vedere e farsi vedere.
Un concentrato di energia pura e vitale, sospesa nel vuoto come la lineare scenografia curata dalla sua «anima» più autentica, Flavia Mastrella, cui forse va attribuito un ruolo catartico, rispetto alle potenzialità di Rezza. Ancor di più, si potrebbe sospettare che soltanto grazie alla genialità di quest’artista Rezza riesca a esprimere il proprio talento, sia riguardo ai testi, sia per la corrispondenza delle geometrie spaziali a quelle corporee, di cui Rezza mena gran vanto.
E se talora può sembrare che il quarantaduenne artista originario di Latina piombi nel culto narcisistico di se stesso, indulga in quel di più di presunzione che guasta, lo spettacolo mantiene un tono complessivo di divertimento alto e disincantato, con una fresca genialità che pervade il palco e la platea.
Come descrivere l’ora e mezzo di assoluto coinvolgimento e risate genuine? Qui si tratta di folgorazioni di respiri, lampi di voci e vocine strappate alla quotidianità scarna e angosciante. Non si ride mai o quasi mai dell’attualità: il tempo resta sospeso come l’artista quando si lascia scarrozzare in lungo e largo dai due suoi validi partner, Ivan Bellavista e Giorgio Gerardi. Rezza cavalca tiranneggiando i suoi paggi come dio comanda. E prosegue, facendosi nano o padrone, operaio o vecchina, tiranneggiando se stesso, i suoi personaggi e il pubblico attorno alla gioiosa macchina posta al centro della scena dalla Mastrella. Geometrie variabili che tormentano Rezza almeno quanto i suoi irresistibili tormentoni di parole, e parole che non hanno bisogno di testo.
È assoluta geometria della voce: si gioca con i pieni e i vuoti della scena come con quelli della vita. Quadri surreali che cadono dal vuoto con le loro storie; brandelli di comunicazione strappati alla banale vita degli umani. Luoghi comuni e ricordi di parole. Un mondo sospeso, dunque, come l’inafferrabile pesce gigante che dà il titolo allo spettacolo, Bahamut, e un girovagare per il mondo come migranti senza tempo.

Una prova anche ginnica che poggia molto spesso su sonorità primitive e su quello che Rezza definisce «un assoluto verticale», ovvero il suo corpo mobile, la materia composta di follia e ragione, in parti uguali. Se non fossero poi la stessa, medesima cosa.

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