
Per gentile concessione dell’editore Settecolori pubblichiamo un brano da «C’era una volta Hollywood» (pagg. 350, euro 26; in libreria da domani): si tratta di una autobiografia di David Niven attraverso cui il celebre attore inglese (19101983) racconta anche una «biografia del cinema» dell’epoca d’oro.
L'atmosfera rilassata da villaggio di Beverly Hills era molto accattivante e al centro della mondanità cinematografica, nel ristorante The Brown Derby, gli uomini indossavano mocassini, camicie a collo aperto e giacche sportive, mentre le ragazze, liberate ultimamente da Marlene Dietrich, che aveva fatto un'apparizione da brivido in un completo maschile, si presentavano entusiaste in pantaloni e le cameriere erano graziose aspiranti attrici in fasi alterne di disincanto. I due tennis club più apprezzati dalla colonia cinematografica erano il Beverly Hills e il West Side. Il Beverly Hills era di gran lunga il club migliore e il tennis era di livello molto più alto, con Fred Perry che teneva i punti e sfidava tutti i giocatori, ma io stesso mi iscrissi al West Side perché i responsabili avevano saggiamente deciso che le belle ragazze erano un ingrediente più digeribile dei professionisti sudati, e non dimenticherò mai una festa in maschera nei locali in cui arrivò un giovane avvocato di nome Greg Bautzer, con un sorriso sgranato come un organo Hammond e al braccio una bellezza impressionante vestita da pastorella, la diciassettenne Lana Turner.
La patria della Telefonata Fasulla era la piscina iper-clorata del Beverly Hills Hotel, intorno alla quale agenti poco noti si stendevano, sudati e con gli occhi arrossati, in attesa che l'altoparlante trasmettesse i messaggi da loro stessi accuratamente concepiti perché fossero diffusi: «Mr. Bleepburger per favore sia così gentile da chiamare Mr. Darryl Zanuck e Miss Claudette Colbert quando ha un momento urgente».
C'erano anche autori di gag con le orecchie dritte per intercettare qualsiasi aneddoto che potesse tornare utile. «Fan-ii!... Fan-ii!» annuivano seriosi senza un'ombra di sorriso, poi correvano via a prendere appunti, e per tutto il tempo le ragazze dalle gambe lunghe, i seni a punta e il culo stretto, in costume da bagno e tacchi alti, andavano su e giù speranzose tra la gente sdraiata intorno alla pozza d'acqua.
Alla fine degli anni Trenta il programma bisettimanale presentato dalla maggior parte dei cinema consisteva in un cinegiornale, un cartone animato, un «corto», il film secondario e il film principale. L'intero spettacolo, da fiaccare il fondoschiena, durava un quattro ore, ma come risultato Hollywood era in piena espansione e la Metro-Goldwyn-Mayer, uno dei sette maggiori studio, si vantava di produrre da sola un lungometraggio la settimana.
Edmund Lowe era famoso per molti film, ma specialmente per quelli realizzati in coppia con Victor McLaglen; lui e la sua segretaria fecero amicizia con me poco dopo il mio arrivo a Hollywood perché lei aveva deciso che assomigliavo al suo datore di lavoro. Aveva notato questa somiglianza quando ero in piedi davanti al cancello principale dei Paramount Studios a guardare le star nelle loro auto di lusso, e mi ero distinto, apparentemente, dalla calca di turisti e comparse disoccupate perché avevo in bocca un grosso tappo di sughero. Questo tappo e la somiglianza con Edmund Lowe avevano talmente incuriosito la signora che aveva ordinato all'autista di tornare e di portarmi dal suo principale. Eddie Lowe era un uomo cordiale e sorridente; mi spiegò che stava cercando un sosia e mi chiese se fossi interessato al lavoro. Lo ringraziai dicendo che speravo di diventare un attore anch'io; secondo me assomigliava a mio padre, ma non lo dissi.
«Perché il tappo?» mi chiese. Gli spiegai che E. E. Clive, un vecchio caratterista teatrale che aveva dominato il mercato cinematografico con ruoli di maggiordomo e giudice, mi aveva dato un prezioso suggerimento su come aumentare la sonorità della mia voce, che secondo lui era inconsistente. «Prendi un tappo lungo, ragazzo mio» prescrisse, «preferibilmente da una bottiglia di Hock anche se dubito che molti bevano vino bianco del Reno in questo posto arretrato infilalo per lungo tra i denti e, quando non hai niente di meglio da fare, ripeti il Padre Nostro una mezza dozzina di volte: farà miracoli».
Eddie Lowe mi insegnò molto su Hollywood nelle settimane successive. Cercò valorosamente, ma senza successo, di suscitare l'interesse dei suoi amici produttori alla mia stagnante carriera e mi fece fare personalmente il tour di una Fabbrica dei Sogni in cui lavorava. Mi portò in giro per quello che familiarmente era chiamato il retro-studio, un'area di oltre 80 ettari su cui sorgevano i set permanenti, tra cui strade di New York (alcune eleganti, altre di arenaria), villaggi del New England, francesi e spagnoli, castelli medievali, una stazione ferroviaria completa di binari. Laghi con macchine per creare le onde e ponti rustici, un campus universitario, un aereo di linea, un tratto di giungla e un altro di pineta, un battello a vapore del Mississippi, una goletta a tre alberi, canoe indigene, un sottomarino, un tratto di deserto con un forte in rovina e, nel caso mancasse qualcosa, diversi ettari di strade, villaggi, cattedrali, capanne di fango, sale da ballo, piste di pattinaggio, stadi, teatri, vigneti, baraccopoli, piantagioni del Sud e palazzi orientali, accuratamente smontati, schedati e conservati. Lowe mi portò anche nel ranch occidentale dello studio, diverse centinaia di ettari di colline ondulate nella San Fernando Valley su cui si trovavano i sobborghi e le abitazioni degli indiani. Enormi distese di finzione erano necessarie a Hollywood perché i viaggi aerei erano ancora agli albori e se, per esempio, un film era ambientato a Venezia, i canali, le chiese, i palazzi, le gondole e i ponti sarebbero presto spuntati in loco. Non c'è quindi da stupirsi che Via col vento sia stato girato a Culver City, Gli ammutinati del Bounty appena fuori dall'isola di Catalina, La carica dei seicento nella San Fernando Valley, Il gobbo di Notre Dame vicino a Vine Street, I dieci comandamenti dietro la Western Costume Company, Le avventure di Marco Polo a un centinaio di metri dal gasometro della città e il respiro di Scrooge in A Christmas Carol fotografato in modo fantasioso in un grande frigorifero vicino all'Ambassador Hotel.
Sotto la guida di Eddie Lowe trascorsi giorni a vagare per il retro-studio e anche per lo studio principale nel cuore della Fabbrica dei Sogni, dove per qualche motivo gli edifici, il parcheggio e le strade erano uniformemente bianchi o giallo pallido, in modo da ottenere il massimo del bagliore dal cielo senza nuvole della California, e dove l'intero luogo assomigliava a un misto tra il quartiere degli affari di una fiorente cittadina e l'area di servizio di un trafficato aeroporto.
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