Il futuro delle città. Arrestare il degrado? Più del legislatore possono gli individui

Il futuro delle città. Arrestare il degrado?  
Più del legislatore possono gli individui

Grande tema del Festarch, il Festival dell’Architettura che si è svolto a Perugia e Assisi, è quello dell’anticittà. Il direttore del festival, Stefano Boeri, ha dedicato all’argomento un bel libro, uscito in questi giorni, che porta lo stesso titolo (L’anticittà, Laterza, pagg. 158, euro 12). Tutti a Milano conoscono Stefano Boeri: per la famiglia importante da cui proviene, per la sua fama di architetto e intellettuale, per il suo indubbio amore per Milano, cui ha dedicato libri importanti e, più recentemente, anche per la sua partecipazione alle primarie per il Comune di Milano e per la tredicimila preferenze ottenute alle ultime elezioni.

Io non ho votato per la sua coalizione, però da anni discuto con lui sul tema della città - a partire da Milano, ma senza limitarci a Milano - condividendo gran parte delle osservazioni ma con qualche distinguo importante. E forse è giunto il tempo di soffermarci su punti essenziali del problema, in un momento fondamentale nella storia delle nostre città, dove i cambiamenti invisibili sono altrettanto radicali di quelli visibili.

Che cos’è, per Boeri, l’anticittà? La risposta è molteplice. Prima di tutto, l’anticittà è un corpo che esiste da sempre, dentro la città, che riunisce tutto quanto esula dal suo corpo per così dire programmato, e che ha ricevuto nel corso del temo nomi e nomignoli spesso spregiativi: dalla suburra romana alle «emergenze sociali», o alle «categorie a rischio» dei giorni nostri. La città del malessere, insomma. La città come problema di ordine pubblico. Ma non solo. L’anticittà corrisponde anche a quella polverizzazione che, nelle società ricche come quella europea, fa da pendant all’inurbamento selvaggio dei paesi poveri, e che ciascuno vede sotto di sé nel momento in cui il suo aereo si avvicina alla pista d’atterraggio. La città si sfilaccia, si spappola in grumi che, di notte, somigliano a stelle, costellazioni, galassie, nebulose. Qui l’anticittà è spesso ricca, ma - ricca o povera che sia - tende invariabilmente a creare isolamenti, enclaves, separazioni. Anche se non mancano le eccezioni positive, là dove - come nel complesso de «Les Olympiades» a Parigi - un progetto di edilizia popolare dei primi Anni Settanta mal digerito dalla popolazione cittadina si è trasformato in uno straordinario esperimento spontaneo di convivenza produttiva in una delle aree più multietniche della capitale francese.

Tra le cause del degrado - questo è molto interessante - Boeri include anche l’arroganza degli architetti e degli urbanisti, e prevede per il futuro prossimo un passaggio da un’epoca dominata dagli architetti (usati nella funzione, quasi, di marcatori del territorio) a un ridimensionamento della loro funzione a una sorta di servizio, di supporto delle buone dinamiche. Il libro di Boeri è ricchissimo di spunti di riflessione. Io ne prendo alcuni, che mi sembra richiedano di essere trattati con maggiore urgenza.

La domanda che viene spontanea è: come deve rapportarsi la città con l’anticittà? Questo rapporto dipende, in gran parte, dal modo in cui la città si pensa. Anni fa scrissi un libro su Milano in cui attribuivo i problemi principali della mia città proprio alla sua difficoltà di pensarsi, di darsi un’immagine. Lo stesso vale, credo, per tante altre città: occorre fare lo sforzo di dotarsi di un pensiero. E che questo pensiero non sia d’importazione, ma nasca da una riflessione approfondita sull'esperienza urbana del nostro paese, caso per caso.

Il percorso personale di Boeri è indicativo di un certo modo di affrontare il problema, che non è detto sia l’unico. Il suo passaggio da semplice architetto-scrittore a politico militante, dettato da un sentimento d’impotenza che l’ha persuaso della necessità di una discesa in campo di questo tipo, dice del suo modo di interpretare il rapporto con l’anticittà. Boeri, intellettuale di sinistra, crede in una contiguità tra pensiero e azione politica (o della politica come pensiero) che io, cresciuto in un altro clima, vedo con una certa difficoltà. O forse non capisco bene. A che livello, mi chiedo, si situa l’azione politica? In una pianificazione dall’alto o in un’azione di supporto? Quei soggetti, come certi ordini religiosi, che si sono sempre occupati di anticittà (pensiamo ai frati e alle suore francescane che gestiscono le mense dei poveri - dove oltretutto gli stranieri sono spesso in numero inferiore rispetto agli italiani - o a chi si occupa di accoglienza temporanea in termini di abitazione ma anche di affido di minori) devono essere messi da parte perché d’ora in avanti ci penseranno i servizi municipali?

Io so benissimo che Boeri non pensa questo, ma per stabilire un dialogo duraturo è bene mettere le carte in tavola - comprese quelle carte che vengono da una storia di contrapposizione e di diffidenza tra «pubblico» e «privato», che molto ha nuociuto al riconoscimento del valore pubblico di certe iniziative riconducibili all’area del «privato». Un esempio di questo problema è il modo di trattare il tema della scuola, cui Boeri intende dare uno scossone. Deciso a ridare ossigeno alla scuola pubblica, Boeri propone innanzitutto di valorizzare gli edifici scolastici e le dinamiche sociali che in tali edifici hanno il loro centro, promuovendo attività serali come incontri, dibattiti, conferenze e facendo di questi edifici (qui la cosa si fa un po’ più delicata) la sede di associazioni locali. Bisognerà, ovviamente, in gran parte dei casi, ridisegnare queste scuole per renderle adatte al nuovo ruolo, perché in certune non si ha proprio voglia di metter piede.

Su questo punto, dopo aver detto che la riqualificazione di questi edifici in funzione di collante sociale, anti-sfilacciamento, è una bella idea, mi permetto di ricordare che il degrado della scuola è soprattutto un degrado della sua funzione peculiare, che è quella di trasmettere conoscenze. La trasformazione dell’edificio scolastico in una specie di centro di socialità è stata tentata altrove (penso alla banlieu parigina) ma finché non si tocca il punto cruciale della trasmissione del sapere (che non è studiare Leopardi a memoria) i risultati sono scarsi, magari c’è un po’ di entusiasmo all’inizio ma dopo si vedono sempre le solite facce. E resta da stabilire anche in questo caso il legame di soggetti «terzi» con l’anticittà. La tradizione educativa degli ordini religiosi, ad esempio, ha un’origine che è ben lontana dalle «scuole per ricchi» in cui molti vorrebbero rubricarla. Si tratta, voglio dire, di attori spesso molto importanti del territorio, di soggetti capaci, spesso, di portare in zone difficili, in aree di anticittà, un principio di unità e di vivibilità. Non saranno gli unici, ma ci sono anche loro, e secondo me il destino della città e del suo rapporto con l’anticittà dipende in parte sostanziale dal modo di trattare questi soggetti «terzi», o corpi sociali intermedi, come dicevano i vecchi manuali.

Su tutti questi temi, che Boeri conosce perfettamente, è importante iniziare non solo un dialogo finalizzato alle scelte contingenti, ma un’opera di pensiero comune. Il problema non è tanto «a cosa siamo disposti a rinunciare» ma «che sforzo facciamo per capirci reciprocamente fino in fondo». E bisogna provare a farlo insieme, accettando la drammaticità di un paragone che può essere talvolta duro. Ma la storia dimostra che il pensiero non nasce se non c’è un dramma - reale, non mentale - che lo produce. Perciò ben venga la durezza. So che Boeri su questo punto c’è. Io ci sono, e con noi altri.

Occorre rischiare un pensiero, fuori dai giochi della politica, e fuori dalle facili contrapposizioni tra «cittadini» da una parte e «poteri pubblici» dall’altra (dove ciascun attore ha il vizio di pensare sé stesso come il buono della situazione). Sarà una banalità, ma per ora nessuno sta facendo questa cosa. Bisognerà che qualcuno cominci.

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