La gelosia per Alice volerà negli Usa

Caro Nino,
ti ricordi quando Adriano Celentano cantava «le calze a rete hanno preso già il posto dei calzettoni»? Erano i primi anni Ottanta, Facebook non c'era. Però quella canzone («Il tempo se ne va») raccontava il turbamento di un padre che vede la propria figlia diventare grande: «è strano mai sei proprio tu, quattordici anni o poco più»... Ti ci riconosci? Ma sicuro: è lo stesso turbamento tuo, caro Nino, è il turbamento mio, è il turbamento di tutti i padri che da sempre vivono due sentimenti opposti e laceranti: da una parte fanno di tutto per aiutare i loro figli a prendere il volo, dall'altra vorrebbero che i loro figli non lasciassero mai il nido...
È così, amico mio: cresciamo i nostri bambini, ma sotto sotto vorremmo che non crescessero. Li prepariamo al mondo, ma inconsciamente vorremmo che il mondo non li incontrasse mai. Facebook è solo l'ultima versione, tecnologica e internettiana, di ciò che l'uomo prova da quando a malapena aveva inventato la ruota. Se lo vuoi sapere, lo strumento (Facebook s'intende, non la ruota) non mi è molto simpatico. Avevo anche giurato a me stesso che ne sarei stato alla larga, che non mi sarei fatto prendere dalla mania dei nostri tempi di andare a cacciare vecchi compagni di scuola o di basket nel catalogo on line della nostra vanità. E invece ci sono andato. Mi sono iscritto. Ogni tanto ci faccio un giro. E sai perché? Perché volevo controllare mia figlia. Volevo vedere le foto che mostrava agli altri, gli amici che incontrava, quello che diceva.
Ecco, l'ho confessato. Sono geloso di mia figlia. Terribilmente geloso. La prima volta che l'ho vista con un ragazzino ho sentito un sommovimento interno tutto strano. Razionalmente dicevo: non può essere. Invece era. Era gelosia. Ho avuto un po' paura ad ammetterlo, ma in genere cerco di essere sempre sincero, figurarsi se non lo sono con me stesso. Ho sentito dentro di me qualcosa che non si può spiegare razionalmente, e che non c'entra niente con la tecnologia, i microchip e l'on line. Quel qualcosa appartiene a noi, agli uomini, da sempre. Ecco perché sono convinto che Facebook sia solo un'occasione in più, una vetrina particolare, una deviazione ipernuovista di un legame ancestrale, l'ultima versione di un mal di pancia antico.
Il fatto è che sappiamo benissimo che quella che diamo ai figli è la loro vita, non la nostra. Però fatichiamo ad accettarlo. Anche perché per un po' di tempo le due vite coincidono. Quando sono piccoli e ti osservano come se tu fossi l'universo intero, quando cominciano a parlare e ti ascoltano rapiti, ecco allora hai come l'illusione che i loro sorrisi siano i tuoi sorrisi, i loro sguardi siano i tuoi sguardi. Ma è un'illusione, appunto: in fondo sai già che non è così. Lo sai benissimo. Sai che arriverà un giorno in cui sorrideranno ad altri, Facebook o no, sai che le loro foto, i loro pensieri, le loro parole non saranno più solo per te.
È un fatto naturale e, insieme, così duro da accettare. Tra pochi giorni mia figlia Alice, 17 anni, partirà per gli Stati Uniti. Ha scelto di fare laggiù il quarto anno di liceo. L'ha voluto fortemente. È una ragazza brava, volenterosa, studiosa, intelligente. Sono sicuro che si comporterà benissimo, sono sicuro che l'esperienza le sarà utilissima. L'ho detto sì (razionalmente) e sono convinto (razionalmente) di aver fatto bene. Ma dentro di me, un po' meno razionalmente, quanto sto male. Quanto sto male a pensare che per un anno avrà un'altra famiglia, un altro mondo, un'altra vita fuori da me. Lontana migliaia di chilometri da me. Sto così male che non riesco nemmeno a pensarlo.

A volte sogno di scendere in pista e fermare con le mie mani quell'aereo che tra pochi giorni me la porterà via. Ma l'aereo non si ferma con le mani. Il tempo e Facebook, caro Nino, neppure.
Mario Giordano

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