Il geniale "disprezzatore" Elogio (critico) di un poeta giocoliere

Si vantava della sua "inutilità". Ma a dieci anni dalla morte tutti ne riconoscono l’importanza decisiva nel teatro mondiale

Il geniale "disprezzatore" Elogio (critico) di un poeta giocoliere

Il nome di Carmelo Bene evoca ancora oggi, a dieci anni dalla morte, l’immagine di un masso erratico così grande da renderne impossibile lo spostamento.
Dargli un posto, interpretarlo, spiegare al mondo cosa ha veramente detto. La grandezza di Carmelo Bene. La sua insostituibilità. Il suo genio anticipatore. A tutti i suoi esegeti Bene risponde con una delle frasi che l’hanno reso celebre: «Signori, in cosa posso esservi inutile?».
Franco Branciaroli, il maggior attore di teatro italiano, che l’ha conosciuto, frequentato e parodiato, lo descrive in controtendenza rispetto all’immagine ufficiale: per lui Carmelo Bene era soprattutto «un gentiluomo del Sud», «una persona molto dolce».
Mi torna in mente Nostra signora dei Turchi, il suo film-scandalo che partecipò alla Mostra del Cinema di Venezia del 1968 ottenendo il premio speciale della giuria. Di quel film mi restano nel cuore le meravigliose architetture del Sud, insieme alla trovata un po’ farsesca e un po’ clownesca della conversione del carnefice, che impedisce a un cristiano di Otranto di ottenere il giusto martirio.
Ricordo l’avidità con la quale, ragazzo, guardai e riguardai il film e ne parlai e riparlai, come uno dei cortigiani di Andersen che, alla vista del re nudo, non può fare altro che commentarne e magnificarne le vesti. Il senso profondo di questa scena! Le genialità di quella! Si andava a cercare l’intelligenza dentro gli spazi giurisdizionali dell’intelligenza, quelli dove essa viene sistemata per statuto.
Invece la forza di quel film sta nel fatto di essere prima di tutto una puttanata colossale realizzata con questo preciso intento. Il mondo doveva inchinarvisi davanti, non a caso a Venezia Bene pretendeva il premio della critica perché al tempo il suo successo era un successo di critica, e s’inalberò parecchio per non averlo ottenuto, anche se i maggiori intellettuali della giuria, i più illuminati, le menti più aperte, si spellarono le mani a furia di applaudirlo.
Poi venne il successo di popolo, quello al quale partecipai anch’io, che nel ’68 ero solo un bambino. Ricordo il Palalido di Milano strapieno ad ascoltare i suoi recital di poesia, i brividi che ci correvano lungo la schiena quando recitava Dino Campana, e Genova era un classico del rock come Satisfaction o Whole Lotta Love.
Forse proprio lì, in quel rapporto semplificato, era possibile - ben più che nelle elucubrazioni dei suoi esegeti - capire e amare un artista la cui chiave sta tutta nel teatro, nel suo essere uomo di teatro dentro un teatro italiano che era quello che era, con i suoi Gassman, i suoi Strehler e tutte le sue cattive abitudini.
Quale fu la forza di Carmelo Bene? Branciaroli non ha dubbi: «L’imbecillità degli altri fu la sua forza». Bene distingueva due categorie di imbecilli: quelli che avevano visto la Madonna e quelli che non l’avevano vista, e metteva sé stesso in quest’ultima, ma, io credo, non perché si considerasse tale, bensì per il mondo, per l’ambientino - come lo chiamava lui - dello spettacolo, che gli toccava frequentare: qualcosa che non si poteva chiamare nemmeno cultura «bassa», al più una cosa per faccendieri, com’era allora e come è stato anche in seguito.
Chi ha cercato di interpretare Bene, di scendere nella profondità del suo messaggio, sono quelli a cui sarebbe piaciuto trovarsi alla rappresentazione di Cristo ’63 (vietato dalla polizia subito dopo la prima ma poi nuovamente rappresentato dalla solita contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare, che per essere più moderna di ogni moderno lo rivolle per sé e per i veri intellettuali) in cui un attore faceva pipì addosso agli spettatori.
È possibile immaginare che Carmelo stimasse quelli che andavano a farsi pisciare addosso ai suoi spettacoli? Non è possibile. Bene era una persona di grande equilibrio, che si divertì a dire e fare ogni sorta di idiozia rendendosi conto che non c’era nessuno, né in Italia né in Europa, che fosse realmente in grado di prendersi gioco di lui, come forse lui avrebbe voluto.
Non ho mai conosciuto un artista con un disprezzo così profondo nei confronti di coloro che gli decretavano il successo. Ricordando le sue infuocate letture poetiche - tra le quali voglio citare poeti-tabù come Gabriele D’Annunzio - non posso dire di aver ricevuto da lui una chiave interpretativa di quelle opere. Bene non ci ha insegnato cosa dicono i poeti e nemmeno che cos’è la poesia: Bene ci ha fatto capire che Campana, Dante, Majakovskij, D'Annunzio sono poeti, ci ha fatto incontrare la poesia come tale, la poesia come differenza rispetto a tutto ciò che poesia non è, la poesia come un oggetto contundente, pericoloso.
Proprio perciò la sua vera natura è teatrale, ed è nell’azione teatrale e non nei contenuti o nei messaggi che lo troverete. Il suo genio non è stato un genio speculativo ma ostensivo, come quello della liturgia. Egli esibì sé stesso come pura differenza rispetto a tutto, ed è in questo pensiero della pura differenza che, secondo me, va guardata la sua opera.


Per questo Bene è stato figura fondamentale nel teatro mondiale: per aver sottratto il teatro alla propria morte, nascondendolo nell’Incomprensibile, ossia travestendolo da matto affinché il potere ritenesse di non doverlo uccidere.

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