(...) a Cornigliano per difendere poche decine di posti di lavoro in cambio di una concessione secolare su aree sterminate. Con l'assurdo che Ansaldo Energia e soprattutto i superconduttori di livello mondiale del gruppo Malacalza non hanno avuto gli spazi richiesti e Asg è stata costretta ad emigrare alla Spezia.
Insomma, io credo che - di fronte allo stadio - siamo a uno di quei bivi lì. Da un lato, la morte inesorabile di Genova. Dall'altro, l'ennesima possibilità di resurrezione e di riqualificazione. E, stavolta, non è un problema solo genovese, non è qualcosa di circoscrivibile alla Foce o a Carignano, che pure sono i quartieri più interessati e a cui occorrerà porre più attenzione - in modo che lo stadio li abbellisca, anzichè costituire l'ennesima, intollerabile, servitù a loro carico - ma è un problema italiano.
Lo testimonia anche il dibattito sulla fiducia al governo di Enrico Letta, martedì mattina. A Palazzo Madama, a un certo punto, è intervenuta la senatrice Monica Casaletto del MoVimento Cinque Stelle e ha tuonato: «Sempre parlando di sviluppo senza sprechi, che è il nostro faro per rilanciare il Paese, la strana maggioranza ci propina ancora cemento. Leggiamo attoniti le dichiarazioni di Enrico Letta che, poco più di venti giorni fa, sul suo sito, dichiara di voler ripartire dagli investimenti degli stadi per rilanciare l'economia. Evidentemente, siamo alla caduta dell'Impero romano e si continua ad investire su panem e circenses e sul cemento. Sembra di essere negli anni Ottanta del ministro De Michelis, e nelle notti magiche di Italia '90. L'economia italiana non ha bisogno di nuovo cemento, non ha bisogno di nuovi stadi».
Parole, quelle della senatrice, accompagnate dagli applausi trionfali dei suoi compagni di gruppo pentastellati. A cui il presidente del Consiglio ha prestato talmente attenzione da dedicare loro una parte della replica: «Dobbiamo cambiare sulle regole, ma dobbiamo cambiare anche su cose minori. Lo voglio dire perchè voglio riprendere l'intervento della senatrice Casaletto, che ha citato una questione molto settoriale, che però mi serve per usarla come metodo di lavoro: ha citato la questione degli stadi. Uno dirà, cosa c'entrano gli stadi con l'Europa?».
Enrico Letta si fa la domanda e si dà pure la risposta: «C'entrano, secondo me, per un motivo molto semplice. Il tema di fondo è questo: noi dobbiamo lasciare tutto esattamente com'è nel nostro Paese, tutto fermo, perchè fare qualche cosa ci spaventa rispetto alle conseguenze che potrebbe avere? Prendo questo esempio degli stadi per un motivo molto semplice: gli stadi in Italia sono quasi tutti stadi di decenni fa, tutti fermi dentro il cuore delle nostre città. Ogni volta, per arrivarci, ci arrivano non i mezzi pubblici, ma ci arrivano le automobili, i gas di scarico, dentro le nostre città, in una condizione nella quale questo avviene; non è che non avviene, questo avviene».
Intendiamoci, non è un discorso destinato a passare alla storia dell'Accademia della Crusca, ma occorre dare a Letta l'attenuante del fatto che parlava a braccio, rispondendo al dibattito appena concluso. Quindi: «Allora dobbiamo renderci conto che attorno a questi temi bisogna fare dei cambiamenti, che alla fine servono a tutti; servono a far sì che ci siano più persone che riescono a vivere attorno a questi meccanismi economici, servono a liberare i centri storici e servono a tanti altri aspetti simili. Ho citato questo tema perchè è stato citato prima e perchè mi serviva per esprimere questo ragionamento della concretezza, rispetto al quale io vorrei che ci muovessimo e che ci muovessimo con determinazione».
Insomma, parlare di stadio e dire di sì allo stadio della Sampdoria, che sarebbe forse il più bello del mondo, sul mare, non è parlare di calcio. È parlare del futuro dell'Italia, forse. Del futuro di Genova, certamente.
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