Quando il 29 febbraio a Doha è stato firmato l'accordo tra l'inviato speciale Usa Zalmay Khalilzad e il capo politico dei Talebani Mullah Abdul Ghani Baradar, un'intesa che prometteva di mettere fine alla guerra più lunga mai combattuta dall'America, quasi vent'anni, si pensava che il grosso fosse fatto. La stretta di mano tra Khalilzad in abito blu e cravatta rossa e Baradar con l'abito tradizionale, la lunga barba scura e il turbante nero, è stata ripresa dalle televisioni e i giornali di tutto il mondo. Un'immagine iconica, che farà storia, si pensava. Poi si è capito che la strada era ancora tutta in salita.
Un conflitto che ha fatto 2300 morti fra le truppe statunitensi e decine di migliaia fra gli afghani non è facile da chiudere. Ma sulla strada verso la pace c'è anche un uomo che si gioca tutto, forse pure la vita. Ed è il presidente dell'Afghanistan, Ashraf Ghani. Ghani ama indossare gli abiti tradizionali afghani. Una tunica bianca con su una giacca nera e un turbante bianco annodato sulla testa con una coda di tessuto che scende lungo il braccio sinistro. Ma non disdegna anche di portare abiti all'occidentale come un classico businessman americano. Anche da ciò traspaiono le sue contraddizioni. Ghani ha stretti legami con Washington, ha lavorato alla Banca mondiale, ma adesso non approva la decisione del presidente americano Donald Trump.
Membro della comunità pashtun, maggioranza del paese, Ghani è diventato famoso per la prima volta in Afghanistan gestendo il loya jirga, il grande consiglio degli anziani dopo la caduta dei talebani nel 2001. È un ex tecnocrate che ha trascorso gran parte della sua carriera negli Stati Uniti. Un tecnocrate globalizzato che si è trovato in una delle posizioni più difficili al mondo. I militanti jihadisti, che con il mullah Omar avevano creato un regno del terrore islamico dal 1996 al 2001, lo considerano una marionetta degli americani e puntano a farlo fuori, a tempo debito, come fecero con il presidente filosovietico Mohammad Najibullah nel 1996.
«Il governo e quindi Ghani fin dall'inizio non sono stati parte dell'accordo tra Stati Uniti e Talebani - sottolinea Marvin Weinbaum, direttore di Pakistan and Afghanistan Studies al Middle East Institute di Washington - questo ha suscitato molto risentimento in Ghani. Non è vero come sostengono i Talebani che sia una marionetta nelle mani degli Stati Uniti. Ciò non toglie che, se i Talebani ritorneranno in una posizione di forza, non ci sarà posto più né per Ghani né per tutta la classe politica. D'altronde i Talebani e lui sono inconciliabili. Ghani vuole un sistema con partiti politici, elezioni, il parlamento, i Talebani vogliono ricostituire l'emirato e sono contrari a tutto ciò».
La situazione è complicata anche dal fatto che Ghani è stato rieletto con una manciata di voti alle ultime presidenziali. I risultati sono stati ufficializzati dopo cinque mesi di conteggi. E ora sia Ghani sia il suo sfidante Abdullah Abdullah si sono autoproclamati capo dello Stato. Un caos politico che rischia di far saltare lo stesso accordo fra gli Usa e i Talebani. Anche perché Ghani punta i piedi su un punto essenziale di tutto il processo di pace, e cioè il rilascio di 5mila guerriglieri islamici in cambio di mille soldati e poliziotti nelle loro mani. È dovuto intervenire, con un blitz non annunciato a Kabul, il segretario di Stato americano Mike Pompeo, il quale ha subito avvertito che Washington avrebbe tagliato un miliardo di dollari in aiuti al governo afghano se Ghani e Abdullah non fossero arrivati a un accordo. Ghani allora in risposta ha preparato un team di 20 persone per cominciare il dialogo, ma i Talebani hanno rifiutato. «Il fatto che ci siano due presidenti indebolisce il governo e questo gioca a favore dei Talebani - precisa Weinbaum -. Tutti dicono che bisogna trovare un compromesso, ma sono gli afghani stessi che non lo vogliono. Come si può trovare un accordo in un popolo che si fa la guerra da 19 anni».
In questo contesto il curriculum eccellente di Ghani conta poco. Si è laureato all'Università americana di Beirut. Ha insegnato antropologia all'università di Kabul e poi negli Stati Uniti. Ha insegnato a Berkeley e alla Johns Hopkins University di Baltimora. È entrato a far parte della Banca mondiale nel 1991 poi, come stretto alleato dell'allora presidente Hamid Karzai, è stato nominato ministro delle Finanze nel 2002. Nel 2009 si è candidato alla presidenza e si è classificato al quarto posto, un pessimo risultato. Ma quando la Costituzione ha impedito a Karzai di candidarsi per la terza volta, Ghani ha lanciato una sua seconda campagna nel 2014. La sua vittoria è stata offuscata però dalla scoperta di brogli massicci, più da parte sua che da parte di Abdullah.
La disputa fra i due eterni rivali rischia però di diventare pleonastica. Se davvero l'America procederà al ritiro delle sue truppe, ancora 13mila uomini nel Paese dopo un picco di 140mila nel 2011, fra poco più di un anno chiunque sia presidente si troverà di fronte 80mila Talebani armati fino ai denti e decisi a riprendersi Kabul, come fecero nel 1996 dopo il ritiro russo. Una prospettiva poco invitante, che però non sembra smuovere un uomo dal carattere ostinato e irascibile come Ghani. Ogni mattina si sveglia prima delle cinque e legge da due a tre ore. Il suo motto è: «Spero di vincere attraverso le idee».
E in un'intervista ha dichiarato che i politici sono diventati «straordinariamente conservatori, ma i nostri tempi richiedono immaginazione e un'azione audace». Basterà in un Paese come l'Afghanistan dilaniato dalla violenza da cinquant'anni?
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