Giù le mani dal country. Si litiga sul disco di Beyoncé

Il disco "Renaissance Act II" non è ancora uscito ma è già polemica tra i fan storici del genere e chi lo accusa di razzismo

Giù le mani dal country. Si litiga sul disco di Beyoncé

Tutto come previsto. Beyoncé confeziona un disco country e inizia la polemica. Ma come, un'artista di colore non può cantare il country, che è la tipica musica «dei bianchi» americani, dei texani duri e puri, degli spettatori che vivono di Yellowstone, di rodei e di cappelli da cowboy. Più o meno come accadde a Eminem circa venticinque anni fa con il successo mondiale di The Slim Shady Lp, la musica diventa un ring. Come allora si diceva che un bianco con potesse fare rap (fino a quel momento l'unica eccezione erano stati i Beastie Boys), oggi si litiga perché un'artista figlia di mamma creola e padre afro americano di discendenza nigeriana sta per pubblicare il disco country Renaissance Act II. E quindi vai con gli integralismi. Una stazione radio dell'Oklahoma si è rifiutata di trasmettere il brano «apripista» Texas Hold'em perché «noi trasmettiamo solo musica country» e, nelle prime 24 ore di pubblicazione di questo brano e dell'altro singolo 16 Carriages, solo 8 delle 150 stazioni radio considerate per le classifiche country di Billboard hanno trasmesso il primo brano, mentre nessuna ha trasmesso l'altro. Una posizione chiara contro la popstar americana più popolare e pazienza se lei è texana ed è la prima donna afroamericana a portare una canzone country al numero uno in classifica. Oltretutto, tanto per capirci, a suonare il banjo in Texas hold'em è Rhiannon Giddens che è di colore ma è pure universalmente considerata una maestra di questo che è lo strumento principe del country. Insomma, il rituale è lo stesso. Questa musica è mia e guai a chi la tocca. Ovviamente sono partite le lenzuolate di articoli e polemiche che poi sono rimbalzate anche fuori dagli States ben prima della pubblicazione del disco, prevista per il 29 marzo. Da una parte chi ritiene che il country sia la proprietà privata di una comunità ben precisa. Dall'altra chi sfrutta l'occasione per far notare che si tratta di una appropriazione culturale perché in realtà le radici del country sono nella musica e nella cultura africana. In sostanza, Beyoncé sarebbe il grimaldello per scardinare il luogo comune che il country e i cowboy non siano soltanto John Wayne o Johnny Cash ma abbiano radici nere che la vulgata hollywoodiana ha volutamente dimenticato. E allora vai con le ricostruzioni storiche, con il ricordo dei «minstrel show» di metà Ottocento con attori bianchi truccati di nero che scherzavano sugli stereotipi della cultura afroamericana e sulle percentuali di cowboy di colore che nella seconda metà dell'Ottocento, secondo stime riportate dallo Smithsonian Magazine, quasi il 25 per cento dei cowboy era di colore.

Una discussione che non si ferma soltanto alla musica, visto che il «cowboy core», ossia il look «western chic» è una delle tendenze principali delle collezioni di moda della primavera estate 2024 con cappelli Stetson, cinturoni e cuoio santificati a furor di popolo anche dalla super top Bella Hadid e consacrati pure dalla collezione voluta da Pharrell Williams per Louis Vuitton. Ma il fenomeno Beyoncé ha avuto il potere di traghettare la polemica nel «mainstream».

Come spesso accade, la musica popolare è il tavolo sul quale si ridisegnano le mappe culturali spesso ben oltre la volontà delle stesse canzoni. Beyoncé è la portavoce della riapertura di un genere a un pubblico che, per volontà propria o altrui, se ne è disinteressato quantomeno per decenni. E senza dubbio il ricordo della freddezza con cui fu accolta nel 2016 ai Country Music Association Awards può avere influenzato questa megastar da oltre duecento milioni di dischi venduti e 32 Grammy Awards vinti, roba che l'ha trasformata nella sesta artista più ricca al mondo (fonte Forbes). Ma non c'è solo questo. Succede spesso che generi musicali vengano esplorati da artisti che non ne sono testimonial storici. È un legittimo desiderio di rinnovarsi e magari anche di sorprendere, ma non necessariamente tutto deve ricondursi a una battaglia ideologica. E ricordare che il banjo, ossia lo strumento cardine del country, sia di origini africane (precisamente di Senegal e Gambia) è come dire che il primo pianoforte fu realizzato in Italia da Bartolomeo Cristofori nel 1698 e poi usato da Beethoven e quindi Jerry Lee Lewis non avrebbe potuto suonarlo per fare robusto rock'n'roll.

In realtà, nell'era della condivisione obbligatoria e delle piattaforme che mettono a disposizione ogni tipo di musica per tutti in tempo reale, il patrimonio culturale, forse anche politico, di ogni genere musicale ha perso il perimetro originario. Giusto o sbagliato? Sostanzialmente non importa. Quando uscirà Renaissance Act II di Beyoncé il country sarà passato su tutte le radio del mondo, farà milioni di streaming e magari attirerà l'attenzione anche di un pubblico (specialmente europeo oppure orientale) che prima non aveva la più pallida idea di che cosa fosse il country. E chi se lo immagina come la musica del cowboy con Stetson e cinturone continuerà a immaginarselo e a sentirlo così in radio, nei festival, nelle feste popolari. Nella musica nessuno ruba lo spazio a nessun altro.

E, dopo il successo di Beyoncé e l'inevitabile fine del «cowboy core», il country sparirà dalle classifiche pop e tornerà a essere ciò che è sempre stato, ossia una musica davvero americana, ossia il risultato di tante influenze popolari distinte ma ovviamente non così distanti come a qualcuno piace credere.

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