Giorgio il prudente che non ama l'intrigo

Gran parte della stampa mette un po’ sotto silenzio il passato da comunista: anche se, come ha scritto ieri il Manifesto, Giorgio Napolitano ha una biografia da Cominform, l’organismo internazionale inventato da Giuseppe Stalin nel 1945. Lui, da parte sua non nasconde il passato: così nella recente autobiografia («Dal Pci alla socialdemocrazia europea», Laterza, 2005).
Giovane studente, s’iscrive al Pci sull’onda della caduta del fascismo, diventa funzionario di partito, poi deputato, nei duri anni Cinquanta. Cresce nell’ombra di un dirigente carismatico come Giorgio Amendola, legato all’ala più colta e aperta di un partito che è saldamente comunista, cioè legato innanzi tutto all’Unione Sovietica. Nelle sfide di quegli anni (dall’invasione dell’Ungheria alla destalinizzazione) Napolitano, ormai trentenne, non va in “crisi” come altri della sua generazione. Anzi, racconta lui stesso, assiste con qualche timore all’attacco che Amendola fa all’Unione Sovietica: l’ultimo così esplicito perché Palmiro Togliatti consiglia ad Amendola di non immischiarsi negli affari di Mosca.
È uno dei più importanti “giovani” impegnati nel “rinnovamento” cioè nel liquidare la vecchia guardia ancora stalinista, guidata da Pietro Secchia. Si spende nello scontro politico con coraggio. Nel duro confronto che, dopo la morte di Togliatti nel 1964, vede il Pci spaccarsi tra un’ala più parlamentare e attenta all’unità con il Psi (che ha rotto il fronte popolare ed è al governo con la Dc) e una più legata al clima di ribellione pre-1968, Napolitano è uno degli esponenti moderati di maggior peso, e diventa di fatto vicesegretario del partito con Luigi Longo nel 1966. Passano due anni e vicesegretario di diritto (non solo di fatto) diventa Enrico Berlinguer. Secondo molti osservatori di cose interne al Pci è d’allora che Napolitano si ritrae dagli scontri più duri: come responsabile culturale preferisce gli intellettuali più estremisti (da Alberto Asor Rosa a Mario Tronti) piuttosto dei nuovi socialisti che proprio allora si ritrovano nella rivista Mondo Operaio. Diventato responsabile del lavoro di massa (la commissione del Pci che seguiva Cgil, Lega delle cooperative e altri “organismi di massa”) preferisce promuovere i “giovani” trentiniani che ancora oggi (Giorgio Cremaschi o Gianni Rinaldini) spostano a sinistra il sindacato.
Certo, poi, in tanti campi apre al nuovo: specialmente sulle questioni internazionali. La sua critica all’Unione Sovietica è ferma. Partecipa al clima di confronto con la socialdemocrazia europea, inaugurato anche grazie all’interesse sovietico per l’Ostpolitik di Willy Brandt, è il primo ad annusare ufficialmente il Dipartimento di Stato americano, guidando un viaggio semiufficiale nell’America sino a quel momento proibita agli iscritti al Pci. Segue Amendola nella battaglia per far crescere l’“europeismo” del Pci fino a candidare al parlamento europeo Altiero Spinelli.
Ma mentre vola alto in politica estera (il che richiede un certo coraggio nel Pci), in politica interna si tiene un po’ sulle sue: quando a fine anni Settanta il suo maestro Amendola è attaccato brutalmente da Enrico Berlinguer, che gli imputa di non conoscere l’Abc del marxismo perché non criticava la Fiat per il licenziamento di alcuni dipendenti legati al terrorismo, Napolitano non fa quasi una mossa per difendere il vecchio leader.
Quando Berlinguer decide di rompere con la politica di unità nazionale, Napolitano esegue gli ordini e attacca il sistema monetario europeo, argomento-pretesto per chiudere con le larghe intese.
Non combattere apertamente i cambi di linea, non gli serve a restare nel cuore di Berlinguer che sceglie la sinistra del partito per guidare Botteghe Oscure. Negli anni a seguire Napolitano fa il capogruppo in Parlamento, con qualche presa di posizione più esplicita sempre annegata in un’infinita cautela, in parte determinata dal carattere, in parte dalla convinzione che il Pci non dovesse esser sottoposto a brusche rotture, in parte dall’idea di far parte della “riserva” del partito. Intanto è iniziata una campagna contro “i vecchi” che paralizzano il rinnovamento: nell’obiettivo proprio Napolitano e Luciano Lama. Tra i principali agitatori i “giovani” Massimo D’Alema, Walter Veltroni e altri ex Fgci.
In quegli anni, un po’ emarginato, cura “cautamente” i rapporti con Bettino Craxi: il tono della sua iniziativa non gli evita le critiche della maggioranza del partito. Ma l’unica volta che guida l’area riformista del partito allo scontro, è sull’elezione di Achille Occhetto a vice segretario: anche se la sua critica è più rivolta al metodo che al merito. Oggi, perfino Emanuele Macaluso, suo vecchio amico e compagno di lotte, lo critica perché qualche anno dopo invita i “suoi” a votare per Occhetto, proposto segretario approfittando di un malore di Alessandro Natta.
La fine degli anni Ottanta, mentre il comunismo crolla tra le macerie di Berlino e Mosca, dà coraggio a Napolitano che autorizza i suoi a formare una vera corrente. Arriva, però, Mani pulite e mentre i riformisti più conseguenti criticano le operazioni politicizzate di parte della magistratura, innanzi tutto contro Craxi. Napolitano si rifugia alla presidenza della Camera dove si collega ad Oscar Luigi Scalfaro formando un inedito livello istituzionale che più che difendere il Parlamento e le sue prerogative, duetta – con minime puntate polemiche – con la magistratura: sono i giorni dei linciaggi a Craxi, delle ipocrisie sul finanziamento illegale ai partiti, della soppressione delle forme tradizionali d’immunità parlamentare (pensate con cura dai padri della Costituzione per bilanciare l’anomalo potere di una magistratura organizzata su basi puramente corporative), delle richieste villane del pool di Milano alla Camera: rimproverate con un molto napolitaniano “interventi irrituali” e richieste di scuse a cui Francesco Saverio Borrelli risponde con ostentata e intimidatrice scortesia.
Dopo qualche litigio minore sulla formazione delle liste per le Europee, Napolitano si ritira. Finché Carlo Azeglio Ciampi non lo nomina senatore a vita. Un ritiro non privo di asprezze come si poté cogliere nell’attacco a Massimo D’Alema per le vicende Unipol, condito da una nota di ipocrisia: Napolitano affermò nell’occasione che quando lui seguiva per il Pci la Lega delle cooperative, non c’era stato nessun intervento del partito sulle vicende interne della cooperazione.
Insomma un uomo dalle vaste esperienze, segnato dallo scontro politico che lo ha reso prudente, ma stimato in molti ambienti. Che nel momento decisivo, quando il “partito” non c’è più nella stagione di Mani pulite, non è capace di generosità e iniziativa verso un Craxi pure suo antico interlocutore.
Ieri è stato condizionato dal “partito”, oggi è condizionabile in qualche misura dall’establishment (anche europeo).

Napolitano non ha, però, di Scalfaro l’attitudine all’intrigo, ha le qualità di un politico di serie A: quelli che non risolvono le questioni di fondo con i trucchi. Purché non sia spaventato da qualche corrente di opinione pubblica: a cui forse, però, dal Quirinale saprebbe rispondere meglio di come fece in Botteghe Oscure o a Montecitorio.

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