Un giro nell'Oltretomba fra le ombre di Permunian

La nuova opera si muove nella tradizione di Leopardi e dei "conte philosophique"

Un giro nell'Oltretomba fra le ombre di Permunian

Quando chiami per incontrarlo, Francesco Permunian ti dà sempre appuntamento alla stazione dei treni di Desenzano. Un po' perché non ti puoi sbagliare, le stazioni sono sempre indicate bene sui cartelli stradali, e poi perché, come ti dirà poco dopo le presentazioni di rito, anche Kafka era passato di là assieme all'amico Max Brod per una delle loro scorribande italiane. Desenzano del Garda, appunto. Così ti vedi arrivare la sua figura dinoccolata, con vestiti larghi e comodi, all'apparenza di fustagno, con nuances grigie e marroni. Alto il giusto, secco il giusto, ma l'impressione può anche essere sbagliata perché con tutti gli spettri e gli spiriti che circolano nelle sue pagine, sarà la luce del giorno, sarà la suggestione, ma anche lui ha un nonsoché di umbratile, sfuggente. Allunga la mano e, mentre stringe, ti guarda con quei suoi occhi veloci e sottili inquadrandoti d'un fiato. In quell'istante, ha capito tutto di te e il più delle volte sei già fregato perché non puoi mentire, far finta di essere intelligente o stupido, perché tanto Permunian ti ha sgamato. Come prima cosa ti chiede, a bruciapelo: «Con questo caldo, d'estate, rischio sempre il collasso. Come sei messo tu a pressione arteriosa?». D'accordo i temi fondamentali dell'uomo: la salute, la morte, il sesso. Ma chi se l'aspettava di trovare Aristotele e l'etica nicomachea in stazione sul Garda? Anche nel costruire i suoi personaggi, così intelligenti o così stupidi, furbi, malati, falsi, ingenui, sadici, deve aver usato questo talento indagatore che poi ritrovi tutto nei suoi testi. Giusto per dire che l'autore la sa lunga, in fatto di uomini, donne, dei e animali. Ed è questo lo snodo, il punto focale anche nell'opera più recente intitolata Tutti chiedono compassione, della nuova collana S-confini diretta da Fabrizio Coscia per Editoriale Scientifica. Siamo in ambito letterario, ma la materia di cui si nutre Permunian è prettamente filosofica e in particolare teleologica. D'accordo i diari come idea romanzesca, d'accordo gli zibaldoni, i brogliacci d'autore, le lettere, i memoir, ma sono tutte maschere con cui lo scrittore si prende gioco del lettore e, quasi certamente, di critici, detrattori, estimatori; autore reale e autore implicito, patto narrativo, elementi della narrazione vanno a ramengo, in queste microstorie, perché la forma principale, mimetizzata fin che si vuole, è il conte philosophique. Infatti se leggerete il libro vedrete citati, tra gli altri, autori come Kafka, Bruno Schulz, Cioran, Gnoli, Borges, Ceronetti, che hanno indubbiamente dimestichezza con la filosofia e ne stimolano l'attitudine.

Tutti chiedono compassione, è presto detto, sembra una sinfonia in due parti e prende il titolo da una frase di Augusto Monterroso. La prima parte è composta da minutaglie, struggimenti, invettive, idiosincrasie, crucci e paradossi di un Io narrante sardonico, ironico, comico, drammatico, apocalittico, burlesco, sprezzante, altero, registri cari all'autore, insomma. La seconda parte, intitolata L'angelo di Dondero, è composta da una catabasi verso il fondo del Polesine alla ricerca di persone, segni e simboli della Resistenza. Compagno di viaggio il fotografo Mario Dondero. Ma non si confondano, ingenuamente, autore e narratore perché qui e altrove, a onor del vero, nulla è come appare e solo qualche ingenuo frescone potrebbe pensare che incontrando l'autore si possa vedere in lui un Savonarola contemporaneo o si possa avere a che fare con quell'Io che traspare nelle sue opere. Per come la vedo io, Permunian è un autore pienamente inserito nella grande tradizione leopardiana fatta di poesia, scritture spurie, operette morali, crestomazie, e con Manzoni, e tutta la tradizione del romanzo storico, non c'entra nulla. Linea Leopardiana, dunque. Nel frattempo mi viene in mente un ragionamento guardandolo pranzare. Lì a Desenzano siamo andati in un posto enorme che sembrava una vecchia officina riattata a tavola calda. Ha chiesto qualcosa di leggero, tipo una sogliola, dell'insalata e vino. «Mi raccomando, il rosso della casa!» ha detto al cameriere, e dal tono mi è sembrato di capire fosse un habitué. Un'altra volta ci siamo visti in un castello sperduto della provincia piacentina e anche lì, a pranzo, ha giocato coi commensali facendo finta di avere appetito. Entrambe le volte non ha fatto altro che sminuzzare infinitamente, tagliuzzare, selezionare con forchetta e coltello. Come un anatomopatologo, ha vivisezionato, ordinato nello spazio del piatto, ha centellinato e rigirato il cibo senza quasi assaggiare. Così mi era venuto da pensare alla sua scrittura. E se avesse a che fare con il suo modo di procedere a tavola? Permunian ha a disposizione un'enorme tavolata di parole. Le mette sul piatto e pian piano sminuzza, seleziona, sceglie e ritorna con forchetta e coltello a frantumare, smozzicare, fino a trovare l'essenziale per nutrirsi e per proporre ai lettori il suo companatico. Questo è. Quell'Io narrante è uno psicopompo al contempo viscerale e cerebrale, si prende gioco di se stesso e degli esseri umani. Biasima tutto ciò che è nel mezzo e loda tutto quello che rappresenta il principio e la fine. Rimprovera chi cerca la gloria terrena attraverso il palcoscenico della scrittura, disapprova la mondanità, gli scrittori falsi, gli idola theatri, ma prova empatia per la fanciullezza e la vecchiaia, i due momenti dell'uomo in cui la corruzione ancora non è presente, anche se da vecchi l'esistenza è laida e aberrante. Per tutti gli altri non c'è salvezza.

Così continua a procedere, in quel terrain vague, in quel crepuscolo antelucano in cui sono ancora presenti i demoni un attimo prima dell'albeggiare.

Permunian non è uno scrittore diurno, realistico, razionale, ma lavora nella notte stando ai margini di un teatro alla Tadeusz Kantor in cui si confondono marionette ed esseri umani. Lui dice di essere ancora nel '900, a me pare insolitamente antico, fuori dal tempo cronologico.

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