Il giudice protegge la privacy del serial stupratore di Roma

RomaLa linea è quella di sempre: negare ogni responsabilità, sebbene sia stato inchiodato dalla prova del Dna. Lo dice subito ai suoi avvocati appena comincia l’udienza che lo vede imputato di tre violenze sessuali commesse tra l’aprile e il luglio 2009: «Combattiamo per ristabilire la verità perché non ho mai stuprato nessuno». Luca Bianchini, in carcere dallo scorso 10 luglio, è molto più magro di come appariva nelle foto segnaletiche. Siede tra i suoi legali, Bruno Andreozzi e Giorgio Olmi. La fila dietro ha preso posto una delle vittime, la giovane aggredita il 3 luglio in via Sommer, a Tor Carbone. È la prima volta che vede faccia a faccia il suo (ancora presunto) violentatore.
Bianchini è accusato di essere lo stupratore seriale che ha terrorizzato la capitale la scorsa estate: sorprendeva di notte giovani donne nei garage condominiali, le aggrediva alle spalle, legava loro i polsi con delle fascette, scotch grigio sulla bocca. Stesso modus operandi, stesso passamontagna nero per non farsi riconoscere. Eppure sono stati proprio i ricordi delle vittime a consentire di realizzare un approssimativo identikit. Un numero di targa annotato da una donna ha portato gli investigatori a Bianchini, insospettabile di 33 anni. Il classico bravo ragazzo di periferia, un lavoro da ragioniere in una società e un ruolo da responsabile di un circolo del Pd. Un caso di doppia personalità, secondo la Procura. Un errore di persona, secondo la difesa, che pure ha uno scoglio apparentemente insormontabile davanti a sé: il Dna di Bianchini è compatibile con quello rilevato dalle tracce organiche che avevano macchiato gli abiti delle tre vittime. «Vedremo come è stato raccolto il tampone e come è stato fatto a Luca», replica l’avvocato Andreozzi.
Sempre battagliero il ragioniere, mai un passo in dietro: chiede ed ottiene di rifare il test genetico, grida al complotto (sarebbe stato incastrato dal Pd perché a conoscenza di una «macchina politica affaristica per accumulare soldi in nero», ndr), accetta di essere processato con il rito immediato. Poi, ieri, dà il suo consenso affinché il processo si svolga a porte aperte, tranne naturalmente quando devono testimoniare le parti offese. Il dibattimento, invece, sarà a porte chiuse, come chiesto dall’avvocato Teresa Manente, legale di due delle vittime, e stabilito dal giudice Scivicco. Una decisione che ha destato qualche polemica per le motivazioni da cui è stata dettata.

Per il giudice, infatti, «non si ravvisano esigenze di rilevanza sociale» e va salvaguardato l’interesse della vita privata delle parti offese». Un concetto che sembra stridere con l’ammissione come parte civile del Comune.

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