Alla Gnam l’Eden pittorico di Guccione

PARENTESI ROMANA Molte opere in mostra del periodo capitolino che cominciò nel 1960

La levità di un orizzonte appena tratteggiato che tradisce, per paradosso, il desiderio di possesso. Dell’orizzonte stesso e della tela. O, forse, più ancora, dello sguardo, capace di «assorbire» il paesaggio, vestirlo di sé e restituirlo in una forma nuova, che alla concretezza della materia unisce la poesia del concetto. Il contrasto tra la carnalità dell’essere - e almeno in parte della percezione - e l’eternità della natura, quotidianamente vissuta e filosoficamente idealizzata. Ma, soprattutto, l’emozione della bellezza, tradotta in sentimento. C’è tutto questo, e molto di più, nelle opere di Piero Guccione riunite nella grande antologica a lui dedicata, «Piero Guccione» appunto, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna fino al 25 gennaio. Organizzata da Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Gnam e edizioni Il Cigno, l’esposizione è la prima che la città - dove l’artista esordì nel 1960, esponendo in una galleria privata - dedichi ufficialmente al maestro siciliano, nel tentativo di raccontarne il percorso artistico, tra tecnica e poesia, seguendo il racconto di scrittori e poeti che hanno parlato di lui, da Sciascia a Buzzati.
Nato nel 1935 in Sicilia, dopo una «parentesi» romana, vi torna nel 1979, deciso ad allontanarsi dalla frenesia quotidiana e dall’edonismo della civiltà urbana per riscoprire le radici e seguire le «lentezze» dell’eternità, in un’eroica e paziente ricerca esistenziale ed estetica che lo porta a meditare - e dipingere - l’infinito. Dai piccoli pastelli alle grandi tele, dagli studi teatrali - splendide le notti della «Norma» e le nebulose scene di «Tristano e Isotta», con rimandi al romanticismo di Hayez - ai paesaggi, senza dimenticare omaggi ai grandi artisti del passato e soggetti di arte sacra, Guccione racconta il suo mondo interiore, portandolo all’esterno e «travestendolo» da panorama. Un universo favolistico e favoloso che riesce a conciliare la materia con la forma, l’idea con la sua rappresentazione. Il mare, soggetto prediletto di molti dei suoi lavori, diventa una proiezione dell’anima, ma, nello stesso tempo, mantiene una concretezza «salata», fatta di onde, increspature e riflessi finemente tratteggiati a dare l’effettiva sensazione del movimento. L’acqua si fa specchio del pensiero che la medita, superficie riflettente che è un tutt’uno con il cielo, ma non disdegna di farsi «disegnare» dall’uomo, con il pennello dell’artista - che per la sua leggerezza sembra intinto nell’acqua più che nel colore - ma anche con le appena percettibili scie di navi ormai lontane, delle quali, però, si avverte il passaggio.
In questo eden naturalistico e pittorico rimangono impresse le tracce dell’uomo e della vita. Così il mare arrossato dal sole che tramonta rimanda a un graffio sulla pelle. E il volo delle rondini diventa una cicatrice lasciata dalla contingenza sull’eternità del cielo.

In questa commistione di mortale e immortale, trascendente e immanente, soggetto che guarda e oggetto che è guardato, riposa la «magia» di Guccione, capace di commuovere l’osservatore per l’apparente e impudica semplicità con cui lo chiama a sentirsi parte dell’universo, trait d’union tra la «geometria e malinconia delle pietre» e la possanza della volta celeste, con i suoi misteri e le sue speranze.

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