Il governo deve colmare il vuoto della sinistra

Ma veramente Giulio Tremonti ha buttato alle ortiche l’impostazione liberale che ha contraddistinto la sua politica di governo nel primo e nel secondo governo Berlusconi? È diventato o tornato socialista? Naturalmente sarebbe stolto negare la maturazione di punti di vista nuovi da parte del ministro dell’Economia ma è ugualmente semplicistico etichettare la sua attuale linea di condotta in modo sommario come una sorta di classica posizione «socialista». Il punto da cui partire per capire il ministro sono i processi di globalizzazione affrontati con l’allagamento di liquidità della fine degli anni Novanta e con scelte di apertura degli scambi internazionali valutate da Tremonti talvolta disgraziatamente frettolose, e insieme considerare il peso che grandi istituti finanziari hanno giocato nel dominare la scena dei mercati senza adeguate regole. Da cui la dura crisi del 2008.

È in questo contesto che è maturata una precisazione articolata delle posizioni tremontiane con un’attenzione ai processi che riguardano le comunità (anche in termini morali non solo economici come nella migliore tradizione conservatrice) non molto dissimile da quella di certa destra americana, è cresciuta una cura per le questioni del governo dell’Europa che è in piena sintonia con i Sarkozy e le Merkel, si è consolidata l’idea di mettere al centro dell’economia l’industria e una proprietà diffusa come voleva fare George W. Bush prima che aggressione terrorista e influenza della Goldman Sachs ne frenassero i propositi. Anche l’idea di ridare centralità al lavoro manuale con un rapporto con il posto di lavoro industriale considerato non solo tappa effimera ma anche riferimento antropologicamente etico della esistenza della persona (il che non contrasta con altre esigenze di mobilità di una società avanzata né con il superamento di rigidità obsolete) non è estraneo a un filone culturale conservatore.

Vi sono poi anche le condizioni congiunturali in cui si fa politica in Italia: il pericoloso sbandamento della sinistra, incapace in particolare di esprimere una mezza parola su quello che in tutto il mondo è l’anima del dibattito progressista cioè le sorti del sindacato. Vi sono élite, a partire da larghi settori di banchieri e magistrati, ben lontani dall’avere quei rapporti di lealtà con lo Stato, che al di là delle differenziazione di ruoli e opinioni sono tipici di ogni società democratica occidentale. Vi è un nucleo della formazione dell’opinione pubblica radicale che punta a sabotare il proprio Paese, già indebolito da un terribile disavanzo del bilancio dello Stato. Vi sono dunque elementari mosse di autodifesa tremontiana: difendere una coesione sociale che si basa molto sul senso di responsabilità di sindacati come Cisl e Uil, mantenere sotto controllo il deficit dello Stato, unire un’Italia percorsa (dal Veneto alla Sicilia agli artigiani di Varese) da nervosismi sui quali diverse forze, qualcuna anche nel centrodestra, lavorano per disarticolare la maggioranza.

Insomma vi sono anche scelte tattiche nelle mosse del titolare di via XX Settembre.

Però queste non escludono un disegno strategico niente affatto da liquidare: realmente federalista (quadro entro il quale realizzare il radicale taglio della pressione fiscale di cui ha bisogno l’Italia), mirato a una società di proprietari in cui anche i lavoratori siano mossi da spirito cooperativo e non antagonista, in cui il credito sia funzione della produzione e non viceversa, in cui il riscatto del Sud sia affidato a banche legate al territorio e alle imprese e non a carrozzoni centralistici o centri di potere politico-finanziario irresponsabili. Insomma tutto quello che si trova in larga misura nei programmi delle forze politiche conservatrici-moderate del mondo occidentale.

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