Paolo Armaroli
Per cominciare, sfatiamo una leggenda. Solo nei Parlamenti ottocenteschi le discussioni partivano dalle tesi del governo e della sua maggioranza, proseguivano con lantitesi sfornata dallopposizione e si concludevano con una sintesi delle due posizioni contrapposte. Poi tutto si è attenuato con landare del tempo. Lo testimonia come meglio non si potrebbe Luigi Einaudi nella seduta del 5 settembre 1946 della seconda sottocommissione dellAssemblea costituente. Una seduta particolarmente degna di menzione. Perché fu allora che venne approvato con 22 voti favorevoli e 6 astensioni dei commissari comunisti il famoso ordine del giorno Perassi. Favorevole, sì, al sistema parlamentare. Ma «da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dellazione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo». Buone intenzioni che si sono perse strada facendo se è vero che la storia della nostra Repubblica è in larga misura la storia delle crisi ministeriali.
Prima ancora che fosse eletto capo dello Stato, Einaudi le cose non le mandava a dire. Così affermò che «in tutti i Paesi, in cui esiste la proporzionale, si formano nelle Camere dei partiti che ubbidiscono ai capi. Allora la discussione cessa; oppure, se si fa, non ha per effetto quello di convertire qualcuno; è un parlare a vuoto, e già preventivamente si conosce l'esito della votazione. In queste condizioni non esiste parlamento, non esiste discussione, non esiste la condizione fondamentale della libertà politica che è esclusivamente la libertà di discussione». E in un aureo libretto sui Parlamenti Augusto Barbera, che al referendum si è schierato contro la riforma costituzionale della Casa delle libertà nella illusione che non si arrestasse il percorso riformatore e si è visto con quali bei risultati, ha osservato che la funzione parlamentare esige «la formazione delle decisioni mediante procedimenti che consentano il confronto dialettico fra le varie posizioni, assicurando a tal fine a ciascun componente lassemblea il rispetto del diritto di intervento, di iniziativa, di emendamento».
Nelle democrazie maggioritarie non è uno scandalo che maggioranza e minoranza restino sulle proprie posizioni. Perché luna ha diritto di tradurre in concrete misure legislative il proprio indirizzo politico e laltra ha interesse a illustrare alla pubblica opinione la possibile alternativa. Limportante è che tutto avvenga alla luce del sole. Il guaio è che questa Finanziaria schizofrenica cambia di giorno in giorno. Pirandellianamente è una, nessuna e centomila. Lineffabile Prodi aveva cominciato col dire che una Finanziaria non poteva che scontentare tutti. Poi Fassino e Rutelli hanno dato il contrordine. Da Pirandello siamo passati a De Filippo. Le parole dordine sono state: «Ditegli sempre di sì». Ma a chi? Un po a tutti: alle categorie produttive, a esponenti della maggioranza, perfino ai ministri allergici ai tagli. Quasi che si trattasse di una combriccola di pazzi. Salvo poi scoprire, quando si dice il genio, che la coperta è corta e non si può promettere tutto a tutti. Insomma una Finanziaria, per dirla con un politologo di valore come Gianfranco Pasquino che dopo tutto scrive sullUnità, «tessuta non da una, ma da dodici Penelopi che ogni giorno si sono affannate allordito», «fatta male e presentata peggio».
Perfino Visco dà ragione a Pasquino. Tanto è vero che, persa la pazienza, ha tuonato: «Non si può andare avanti allinfinito, bisogna mettere un punto fermo alle richieste, siano fondate o meno». Così nellaula di Montecitorio, in attesa della immancabile questione di fiducia su maxiemendamenti governativi, si naviga a vista. E tutto questo dopo che la commissione Bilancio ha potuto esaminare - vergogna - appena 12 dei 217 articoli della Finanziaria.
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