GOYA Il volto grottesco dell’umanità che soffre

Una biografia critica di Robert Hughes dedicata al pittore spagnolo precursore del moderno che ha influenzato persino il cinema di Buñuel

Poco meno di 35 anni separano i due dipinti che consentono di abbracciare l’intero arco dell’avventura artistica di Francisco Goya. Il soggetto è lo stesso, stesso il luogo, la spianata oltre il Manzanarre che lambisce Madrid, stessa la celebrazione del 15 maggio, festa di San Isidro, patrono di Madrid, il contadino che secondo la leggenda aveva fatto sprizzare da una zappata nella terra una fonte miracolosa, diventata, coi suoi poggi e campi circostanti, meta di pellegrinaggio. Nel primo dipinto festoso e gaio, La prateria di San Isidro, del 1788, la gente che vi è rappresentata sembrerebbe fatta di persone fra cui il pittore vorrebbe trovarsi: uomini in tricorno con i calzoni al ginocchio e calze lunghe, donne leggere come farfalle sotto i bianchi parasoli, e poi inchini, complimenti, urbano conversare. È vero ciò che dice Robert Hughes nel suo bellissimo Goya (Mondadori, pagg. 460, euro 32), questo quadro è tutto decoro e piacere, vi è assente ogni complicazione o tensione, come una festa in battello di Renoir.
Invece, nel secondo dipinto, di oltre trent’anni dopo, Pellegrinaggio a San Isidro, sotto un cielo cupo, si snoda verso lo spettatore un plumbeo serpente di umanità miseranda e disperata, una folla serrata di corpi e di facce urlanti, dalle bocche che sembrano crateri. Se, come dice Hughes, queste figure sono la visione goyesca dell’umanità come massa, una massa sul punto di esplodere, esse hanno anche la ferocia delle creature che cercano disperatamente di farsi sentire attraverso un vetro sigillato. Il vetro è la somma non più commensurabile, non più udibile, dei Disastri della guerra, delle fucilazioni, delle repressioni sanguinose e delle vendette incrociate, che nel pittore si combinava con la sordità totale che lo colpì al tempo in cui si ritirò nella casa di campagna non lontana dal sito di quel pellegrinaggio. Ogni sofferenza umana era diventata per lui solo un urlo interiore.
Fu in questa casa che egli dipinse a olio sull’intonaco le sue drammatiche e ossessive Pinturas negras (in seguito trasferite con gran cura su tela e tutte al Prado), tra cui, oltre al grandioso Pellegrinaggio a San Isidro, vi sono l’inquietante e demoniaca riunione di streghe di Sabba e lo spaventoso Saturno che sbrana suo figlio o sua figlia, dal corpo comunque adulto e non infantile, una scena orrenda che dovrebbe forse incarnare la rivoluzione che finisce per divorare i suoi figli, un Saturno come Angelo sterminatore, che, prima di diventare modernamente un soggetto per Buñuel, era allora il nome di una delle società segrete ultrarealiste che si scatenavano contro chiunque fosse sospettato anche lontanamente di liberalismo.
Nella sua appassionata e intensa biografia critica, Robert Hughes sostiene che Goya è il precursore del moderno. La sua opera ha influito, ha inciso nella coscienza e nella memoria di numerosi artisti, i più diversi. Manet, ad esempio, per buona parte si rifà a Goya, così come l’imagistica arte cinematografica del già citato Buñuel; e non si può vedere Guernica di Picasso, pervasa dalla luce agghiacciante, elettrica, dell’evidenza senza riandare all’impietoso irraggiamento di luce che si proietta sul massacro goyesco del 3 maggio 1808, l’enorme quadro con cui si sarebbe misurata ogni rappresentazione futura della tragica violenza, vista qual è, nuda e senza falsa retorica, senza pathos: un modello per ogni futuro fotografo di guerra. Strano e complesso il destino artistico di Goya che, nato come uomo del popolo, trovò il successo come ritrattista dell’aristocrazia spagnola, percepì le turbolenze sociali e politiche che avrebbero tormentato l’Ottocento, anticipò i moderni deliri, i sogni e la follia dell’uomo quando Il sonno della ragione genera mostri.
Francisco de Goya y Lucientes, nato, nonostante il nome altisonante, da famiglia modesta nel villaggio di Fuendetodos in Aragona nel 1746, cresciuto a Saragozza, dove il padre artigiano faceva il doratore, studente alle Escuelas Pías de San Antón che accoglievano gratuitamente i figli dotati delle famiglie povere, a tredici anni cominciò a fare l’apprendista da un pittore di Saragozza. Poi, grazie a un collega che era riuscito a entrare tra gli artisti di corte, Francisco Bayeu, andò a Madrid. Nel 1771 compì un viaggio in Italia di cui si sa pochissimo, eccetto che fu a Napoli, a Roma soprattutto, e a Milano. Tornato in patria, sposò nel 1773 la sorella dell’amico Bayeu, Josefa; due anni dopo, adocchiato dal pittore neoclassico Anton Mengs, molto potente a Madrid, fu chiamato a concepire soggetti e quadri per l’Arazzeria reale, e, dopo diversi anni in cui vi lavorava faticosamente, entrò nelle grazie dell’aristocrazia, divenne pittore di corte e nel 1789 fu nominato pintor de cámara al servizio diretto di Carlo IV.
Se le notizie sulla prima metà almeno della vita di Goya sono scarne, Hughes non indulge a riempirne i vuoti o a elaborare fantasie romanticizzanti: sul matrimonio di Goya, felice o meno che fosse, egli dice solo che «durò senza incidenti o scandali per trentanove anni»; e non si sente di avallare le pur suggestive congetture secondo cui, nel soggiorno a Roma, Goya avrebbe condiviso la casa con Piranesi, le cui fantastiche prigioni sembrano riverberare, in termini assai più drammatici, nelle scene di manicomio o di prigione goyesche. Quanto alla passione di Goya per la duchessa d’Alba, trasfigurata nella Maja desnuda (1797-1800), che per due secoli il pettegolezzo ha voluto fosse la prova che i due erano amanti, Hughes sostiene che fu probabilmente una passione per la sessualità che da quella donna emanava, senza che la duchessa dovesse neppure posare, o tanto meno avere una storia con lui, attempatello, ospite nella sua casa, sordo.
Questa storia della sordità non è da sottovalutare. Era il lascito finale di un male che nel 1792 l’aveva portato alle soglie della morte. Era forse poliomielite, sifilide, o meningite, con sintomi che andavano dalle vertigini alle allucinazioni e alla temporanea cecità. Ma, accanto alla sordità, il colpo ferale all’anima, ciò che forse acutizzò la sensibilità dell’artista fu l’invasione napoleonica. Napoleone, che si era incoronato imperatore nel 1804, fece un patto con il re di Spagna per una spartizione del Portogallo, ma le decine di migliaia di francesi che si riversarono in Spagna, vi restavano per prendersi il bottino vero: la Spagna stessa. Quando la popolazione si accorse che Madrid era praticamente in mano ai francesi, si preparò alla rivolta, che culminò nei fatti del 2 maggio 1808, quando gli spagnoli, con scorrerie feroci per le strade, trucidarono soldati francesi e simpatizzanti. Il giorno dopo, 3 maggio, fu ristabilito l’ordine nel sangue.
E pensare che molti ilustrados, i vaghi illuministi spagnoli, tra cui poteva chiamarsi in qualche misura anche Goya, avevano salutato con favore l’avvento dei francesi, che sarebbe servito a smuovere lo sclerotizzato sistema sociale spagnolo. Probabilmente, tutto ciò rappresentò per Goya una sferzata micidiale.

Con la Restaurazione, dopo esser rimasto in ritiro per qualche anno nella casa di San Isidro dove dipinse gli inferni delle Pitture nere, nel 1824 si trasferì in Francia, dove Delacroix e pochi altri sapevano di lui: la fama sarebbe venuta dopo. Si stabilì a Bordeaux, tra altri esuli, e morì il 16 aprile 1828.

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