Difficile ipotizzare se Martin Amis abbia scritto La storia da dentro (Einaudi, pagg. 684, euro 25; trad. Gaspare Bona) con la volontà di consegnare ai suoi lettori quello che, a tutti gli effetti, assomiglia a un testamento. Per chi scrive, la risposta è no: cominciato nel 2016 e uscito nel Regno Unito nel settembre del 2020, solo per caso ha visto la luce in Italia quattro giorni dopo la morte del suo autore, e il cancro all'esofago non aspetta sette anni per compiere la sua missione.
Leggendolo in inglese tre anni fa, non ricordo di aver avuto l'impressione di maneggiare un libro d'addio, anche se vi avevo trovato una considerazione se non altro curiosa: l'autore infatti dichiarava che questo sarebbe stato sicuramente il suo ultimo romanzo lungo. Considerato che Amis aveva appena compiuto 71 anni, mi era sembrata piuttosto una specie di battuta basata sulla statistica e sulla sua convinzione che lo scrittore muore due volte, prima la morte della creatività e, dopo, quella biologica.
Rileggendo il libro oggi nella mirabolante versione di Gaspare Bona, invece, ho trovato impossibile ignorare il basso continuo che risuona per tutte le quasi 700 pagine di cui è composto, una nota cupa e dolente che condiziona anche le non poche fughe comiche così tipiche di Amis. Ma una cosa è il testo e un'altra è la percezione che se ne ha. E dunque veniamo al testo.
Come tutto quello che vede la pubblicazione al giorno d'oggi e che non può essere definito in modo netto saggistica, La storia da dentro è un romanzo, anche se siamo molto più vicini all'autobiografia. Un'autobiografia, però, Amis l'aveva già consegnata alla storia nel 2000 (Experience, apparso in Italia nel 2002 con il titolo Esperienza nella traduzione di Susanna Basso). A distanza di esattamente vent'anni, Amis ha deciso dunque di raccontarci il resto. E il resto, in questo caso, è il suo mondo al di fuori della cerchia familiare. Se Esperienza trovava uno dei suoi fulcri nel rapporto accidentato tra l'autore e il suo famoso padre biologico Kingsley, La storia da dentro si dilunga nel racconto dei rapporti tra l'autore e due altri padri, uno letterario (il romanziere americano Saul Bellow) e uno improbabile e presunto (il poeta Philip Larkin). Accanto ai padri, gli amori. Uno con tutta evidenza in gran parte inventato (la stravagante e sensuale Phoebe Phelps, di sette anni più vecchia) e l'altro invece autentico e noto a tutti (il saggista e polemista Christopher Hitchens). Saul Bellow e Christopher Hitchens sono ricordati con struggimento, si leggano le pagine sulla parabola discendente delle facoltà psichiche del vecchio narratore americano e quelle, intense e quasi insostenibili, sugli ultimi giorni dell'amico fraterno. Su Larkin e Phoebe lo sguardo è al contempo spietato e pietoso, quello che solo un grande scrittore può riuscire a restituire.
Con tutta la perizia stilistica che gli abbiamo sempre riconosciuto, Amis ci porta avanti e indietro nel tempo riuscendo ad approfondire temi da lui già ampiamente trattati (l'11 settembre, Stalin, Hitler, Trump, Nabokov, la paternità, la storia della letteratura, la vita quotidiana dello scrittore) senza nemmeno provare a dare una rigida struttura al suo flusso narrativo. E meno male, verrebbe da dire. Il testo è costellato di preziose note a piè di pagina che meriterebbero una pubblicazione in volume a parte e presenta addirittura un utilissimo microcorso di scrittura creativa (non chiudere mai una frase con un avverbio in «-ente», non usare i due punti e i punti e virgola nei dialoghi, tenersi alla larga dalle frasi fatte come «tenersi alla larga»...). Impagabile.
Il name dropping che fatalmente imperversa per tutta la lunghezza del libro potrebbe risultare irritante, Amis non era il tipo di intellettuale che amava mischiarsi con la gente comune e se andava a cena fuori come minimo ci andava con Ian McEwan o Anna Wintour. Ma non è che occorra essere a tutti costi populisti e, anzi, proprio l'eccezionale fauna di celebrities che ha sempre circondato Amis risulta essere uno dei punti di forza del libro.
Come ogni altra sua opera, La vita da dentro è un elaborato compendio di opinioni urticanti per la sensibilità diffusa del XXI secolo: Amis non risparmia nessuna delle categorie sempre in prima fila a sentirsi offese da chi non la pensa come loro. «Come la schizofrenia e la sindrome maniaco depressiva (e come la religione), l'Alzheimer induce a credere appassionatamente a cose che non esistono». Di frasi come questa, stupende nella loro genuina e legittima sventatezza, se ne trovano centinaia, con buona pace del politicamente corretto. D'altra parte, per tutto il libro, Amis ribadisce l'eccezionalità dello scrittore come essere umano: un adulto che galleggia in uno stato di immaturità permanente, un pelo oltre l'adolescenza; che si guadagna da vivere vendendo storie del tutto inventate e inverosimili; che si trova nella non sempre invidiabile condizione di poter scrivere esattamente tutto quello che gli passa per la testa senza per quello doversi assumere chissà quali responsabilità (a meno che non intervengano i fondamentalisti islamici, si premura di aggiungere).
Quanto XXI secolo si respira in questo libro! Una volta che si è chiusa l'ultima pagina, La storia da dentro assume
la statura di Grande Libro sul Novecento e per il lettore di mezza età nasce spontanea la curiosità di sapere che cosa ne possano pensare (e che cosa ne possano capire) i lettori che il Novecento non l'hanno mai vissuto.
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