
«Quando, da giovane avvocato, iniziai a collezionare arte come sollievo all'ansia, avevo una sola cosa molto chiara: avrei cercato soltanto capolavori». Sono trascorsi già 15 anni da quando il penalista Giuseppe Iannaccone, uno dei più generosi collezionisti italiani, raccontò in un volume della sua «Caccia amorosa» alla pittura italiana dissidente tra le due guerre. Quella caccia è andata avanti, sempre più famelica, e il carniere che viene oggi condiviso nelle sale di Palazzo Reale lascia il pubblico letteralmente a bocca aperta. Tra le 140 opere in mostra non ci sono più i capolavori della Scuola Romana e di Corrente già esposti in tutta Europa, ma tutti gli altri capolavori che raccontano l'arte mondiale dei nostri giorni, collezionati dal presidente della neonata Fondazione Iannaccone parallelamente a un lavoro di scouting sulle nuove generazioni italiane.
Non ci si lasci ingannare dal titolo forse un po' piacione e politically correct «Da Cindy Sherman a Francesco Vezzoli», due nomi già molto celebrati dal gotha dell'arte contemporanea indipendentemente da Iannaccone, e neppure dall'autoritratto di Sherman in tema carnevalesco. L'esposizione promossa dal Comune di Milano co-prodotta da Arthemisia e curata da Daniele Fenaroli (che è anche il direttore artistico della Fondazione) è lontana dagli eventi potpourri a cui il sistema dell'arte contemporanea tra musei, gallerie e case d'asta - ha abituato (addomesticato) il pubblico, ma è una mostra che arriva al cuore perché espressione diretta del gusto di un sincero e appassionato collezionista privato; che non ha acquistato opere d'arte come titoli in borsa e non le ha neppure nascoste nei caveau svizzeri ma da anni, molto prima che la Fondazione nascesse, ha amato esporle e condividerle nel suo «studio legale-museo» di corso Matteotti e negli spazi pubblici, non lesinando prestiti e comodati d'uso alle civiche raccolte.
Questa esposizione a volo d'uccello sulla poetica di 80 artisti, non tutti blasonati, ha alcuni meriti indiscutibili. Il primo è, da parte del Comune, di aver reso pienamente pubblica una grande collezione privata, un aspetto non scontato anche se, come ha giustamente sottolineato il direttore di Palazzo Reale Domenico Piraina, senza le collezioni private neppure i musei probabilmente esisterebbero, ne è prova il prezioso contributo della raccolta Gian Ferrari alla nascita del Museo del 900. Ha poi il merito di essere una mostra «Pop» con la P maiuscola, come ha osservato l'assessore alla Cultura Tommaso Sacchi, ovvero godibile senza bisogno di immergersi in interminabili didascalie. Questo anche perché trattasi di una rara e approfondita mostra soprattutto sulla pittura contemporanea internazionale, essendo Iannaccone un inguaribile amante della tela.
L'altro merito è l'aver affiancato a nomi blasonati come John Currin, Elizabeth Peyton, Michael Borremans, Grayson Perry o Martin Maloney, personalità artistiche che rispecchiano identità etniche più defilate come lo street artist brasiliano Os Gemeos, il pittore nigeriano Feyinwa Joy Chiamonwu, l'afroamericano Kehinde Wiley; ma anche (una volta tanto) nuovi talenti italiani non sfornati dalle major, come Roberto De Pinto, Pietro Moretti e Iva Lulashi. Quando si dice la libertà.
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