Grillini ed ex craxiani in coda per una poltrona

RomaFoto ricordo col divo-leader, forse conosciuto di persona per la prima volta, il grande capo che parla per ammiccamenti e proverbi regionali alla pancia del suo popolo, radunato con pullman e automezzi da tutta Italia. Ecco l’esercito di Tonino, i «delegati» con badge e spilla di gabbiano sul bavero, giunti in questa landa periferica dalle parti di Fiumicino, sul cucuzzolo di una collinetta dove spicca l’arancio del Marriott Hotel, l’albergo della rifondazione dipietrista che rievoca nell’immaginario Idv quello di Sansepolcro dove fu fondato il partito nel ’98. Dodici anni fa erano trecento (e Tonino scandisce questo numero come se parlasse degli spartani alle Termopili, anche se la metà l’hanno ormai mollato), stavolta sono molti di più, qualche migliaio di militanti, che compongono un panel antropologico spiazzante per varietà politico-umana. Ex democristiani e cattolici, ex socialisti (addirittura ex craxiani) e laici, abbondanti pezzi di Udeur, comunisti miglioristi o ex diessini delusi, missini della prima ora, qualche ex leghista convertito al dipietrismo in odio al Cavaliere, ex militanti di Forza Italia passati al nemico.
È uno strano amalgama di esperienze politiche lontanissime tra loro ma mescolate e schakerate nel grande contenitore dell’antiberlusconismo, una base senza baricentro che trova la sua unità nella figura del capo, nell’ideologia della fedina penale e nel mito della Giustizia (all’occorrenza revisionabile, vedi le ovazioni all’indagato De Luca), coincidente con la magistratura (e l’ex magistratura passata alla politica). Il rapporto di questa massa con il leader è impostato sul modello populista «prole-padre», e infatti Tonino usa spesso metafore paternalistiche: il partito ora è un figlio maggiorenne, io sono il fondatore e voglio vederlo camminare con le sue gambe etc.. C’è anche il figlio vero, Cristiano Di Pietro, tornato nel partito (ma c’è chi dice che non sia mai uscito) dopo l’incidente delle raccomandazioni nell’affare Mautone in Campania e Molise.
Di Pietro arringa la sala gremita dicendo che il partito «è fatto di giovani», ma la tonalità generale delle chiome nella sala dà sul bianco, anche se ci sono pattuglie di giovani, divisi in due tipologie: il genere grillino che crede nella politica-dal-basso, e il tipo in giacca e cravatta, aspirante consigliere comunale, con cravatta solitamente sgargiante. Ma i «vecchi» superano di molto gli under 35. Età media si direbbe cinquant’anni, in schiacciante maggioranza maschi, poche donne, qualche sgallettamento plaudente in prossimità del palco dove siedono i big del partito, ma poca roba, «la componente femminile quasi non c’è, sembra un partito di maschi, mentre il Pd e il Pdl sono partiti femminili», certifica il sociologo Klaus Davi, presente al congresso per un’intervista biografica a De Magistris, il moralizzatore di seconda generazione.
L’altro elemento, per comporre un’antropologia dipietrista, è geografico. Le voci che si levano per ordinare il tramezzino al bar o per raccogliere i fedeli intorno alla mozione del capocorrente, hanno solitamente un accento campano-molisano-pugliese-calabrese, in generale centro-meridionale, fatto inspiegabile perché in teoria i grandi elettori di Tonino vengono da tutta l’Italia. Eppure, almeno acusticamente, si direbbe una forza politica centro-sudista, una specie di Udeur, più che un partito nazionale. Al di là della geografia e dietro la facciata di unità morale contro il comune nemico, si percepisce, tra i peones delle delegazioni provinciali e regionali, una competizione micidiale per emergere e arrivare nel gotha degli «eletti», quelli con una carica.
C’è il delegato che fuma fuori e lamenta che «è stata tirata dentro troppa gente» nel partito, c’è l’attivista più giovane che se la prende con quelli che «sgomitano» senza fare nulla, ci sono i delegati senza potere che parlano senza che nessuno li ascolti (costringendo Di Pietro a prendere il microfono per sgridare la sala distratta). Tra gli inevitabili arrivisti e carrieristi, in maggior parte provenienti dall’Udeur ormai caduto in disgrazia, c’è uno zoccolo di dipietristi che militano sinceramente nella fascinazione dei Valori, persuasi della diversità ontologica del loro leader rispetto ai politici che fanno politica per interessi. Questa componente può provenire dal Pci, come il delegato Franco Barlafante, macchinista Fs in pensione: «Ero nei Ds ma ho visto che non c’era trasparenza, allora ho fatto una lista civica e poi sono entrato nell’Idv che fa le battaglie sociali di sinistra». Ma può arrivare da tutt’altro passato, come per Anna Battaglini, libera professionista, ex Forza Italia, prima con il Movimento sociale. O può arrivare dal Psi, con un passaggio dentro Rifondazione, come per l’artigiano di Cosenza Antonello De Franco.

Altro ex ferroviere è il responsabile Idv di Civitavecchia, Alvaro Balloni, che viene al Marriott col suo trofeo: il doppio di percentuale rispetto alla media nazionale nel suo collegio, dilaniato dalla guerra coi maggiorenti del Pd. Fosse per tutti loro, i dipietristi della prima, seconda e terza ora, andrebbero sempre da soli, senza alleati. Ma basta un solo accenno di papà Di Pietro per convincersi che ha ragione lui, sempre lui.

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