Guantanamo, il carcere che ha salvato l’Occidente

Allestito dopo l’attacco alle Torri Gemelle, è il più criticato e odiato del mondo. Ma ha permesso di sventare attentati e salvare molte vite

Guantanamo, il carcere  che ha salvato l’Occidente

È facile essere contro la tortura dopo tanti secoli di orrori, dopo che, dagli eretici alle streghe o semplicemente ai nemici, i diversi inquisitori hanno estratto così tante false ammissioni. La giurisprudenza moderna che discende dalla Convenzione di Ginevra, che regola fra l’altro la questione dei prigionieri nei conflitti, ha dunque proibito di farne uso. Ma questo è il vecchio scenario in cui i soldati catturati, deposte le armi, divengono docili prigionieri in attesa della pace. Guardiamo invece alla contemporanea guerra del terrorismo islamico, in cui alcuni uomini di Al Qaida non depongono mai l’arma principale, quella del fanatismo. Essi continuano fino alla fine la loro guerra, anche in detenzione, e sono ben allenati a affrontare la tortura e la morte. Proviamo a immaginare di avere catturato un terrorista che ha appena compiuto una strage. Egli stesso annuncia un nuovo attentato. Potrebbe essere proprio quello all’autobus che porta tuo figlio. Come estrargli la giusta informazione per fermare la strage? E come impedire che il terrorista continui nella sua guerra?
Guantanamo è stato l’epicentro di queste questioni fondamentali, un ring di lotta ideologica e politica di cui Obama decise tre anni fa di chiudere i battenti, senza poi farlo. Oggi possiamo dire che Guantanamo col suo intrinseco riconoscimento che lo scontro col terrore è una guerra, ha salvato un grande numero di vite umane, bloccando con regole militari ma dignitose terroristi che altrimenti non avrebbero avuto nessun motivo di fermarsi, e utilizzando una mosaico di informazioni. I metodi non sono stati tutti ortodossi, ma non c’è stata tortura crudele e incontrollata. Nell’ispezione ordinata da Obama gli ispettori verificarono che la Convenzione di Ginevra fosse completamente rispettata. La famosa tortura del waterboard durante l’amministrazione Bush fu applicata solo a tre dei cento «terroristi di valore» detenuti. Khalid Sheikh Mohammed comunque aveva nella cella un tapis roulant da palestra) pur essendo il cervello organizzativo dell’attacco alle Twin Towers, Abu Faraj al Libi, o Hassan Ghul, leader di Hamas godevano dell’uso di una biblioteca islamica e altre strutture di uso comune. Tutti hanno l’aria condizionata e tempo per stare insieme. Riescono anche a organizzare lancio di pipì e feci sui militari addetti all’ordine.
Obama tuttavia ha obliterato strategicamente Guantanamo: ha deciso che era preferibile un largo uso di droni e di assassinii mirati, compreso quello di Bin Laden, piuttosto che seguitare a far funzionare la struttura che aveva consentito di bloccare il terrore. Ma Obama e con lui parte dell’opinione pubblica sostiene che il terrorismo non è una guerra, ma un evento criminale. Guantanamo insomma, la prigione americana militare e extraterritoriale aperta dieci anni fa è diventata l’epicentro, travestito da questione umanitaria, della discussione sulla sicurezza e sulla guerra al terrorismo.
Ma a tre anni dalla promessa di chiudere la prigione, Obama non ha osato farlo. In fondo sa anche lui che solo questa prigione isolata, lontana, fuori del territorio americano, ha evitato che la guerra terrorista di Bin Laden facesse altre vittime dopo l’11 di settembre e la Cole. Il mosaico di informazioni raccolto anche con gli interrogatori a Guantanamo ha salvato vite e ha consentito di trovare Bin Laden.

I terroristi sono stati interrogati secondo regole senz’altro molto dure, l’uso dell’isolamento ha assunto proporzioni serie, anche se come dice John Yoo, il giurista che preparò il «torture memo» per Bush, la proibizione di Ginevra di apportare sofferenza fisica o mentale ha insegnato a non sommare diversi tipi di sofferenza, per esempio il sonno con la solitudine o col cambiamento di cibo. Obama ha scelto i droni e i commando con l’ordine di uccidere, ma che questa sia davvero la strada più morale, ci permettiamo di dubitarne.

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