Gucci, la Storia perfetta di un delitto imperfetto

Per l'omicidio di Maurizio sono state battute tutte le piste tranne la più banale: l'odio di una moglie

Gucci, la Storia perfetta di un delitto imperfetto

«Ma queste sono le foto di Maurizio Gucci?». Una mattina di molti anni fa, una stanza della Procura della Repubblica. Un brigadiere ha sul tavolo un album. Sono gli scatti che i carabinieri della Omicidi avevano fatto in un androne di via Palestro. Immagini crude che nessuno aveva mai visto. Un corpo scomposto, prono a metà delle scale. Il primo piano delle dita guantate del brigadiere che scostano i capelli sulla nuca del morto, scoprendo il buco della pallottola. Ecco, guardando quelle foto, per la prima volta il delitto Gucci smette di essere una storia da rotocalco. E torna ad essere la tragedia di un uomo ammazzato. Lo avevano ucciso senza un vero perché: ma allora non si sapeva ancora, ed anzi di perché ne circolavano troppi. Tranne il più banale.

Sono passati trent'anni da quando il mondo dei media si precipitò in via Palestro: «Hanno ammazzato Gucci». La strada già blindata. I cronisti di nera. Quelli di giudiziaria, strappati alla routine delle inchieste su Berlusconi. Gli stranieri, in massa, con le loro troupe sontuose. Era iniziato il circo del «caso Gucci». Nessuno avrebbe immaginato che il morto nell'androne avrebbe raccontato suo malgrado, meglio di tanti trattati, la Milano dei soldi, delle donne ambiziose, del cinismo, delle amicizie fatue delle «curieline»: le signore che si ritrovavano alle sfilate di Raffaella Curiel, e che da quel contesto raffinato e vacuo prendevano il marchio.

Patrizia Reggiani, la moglie separata di Gucci, era una di loro, fino al mattino in cui venne arrestata: e subito la Curiel precisò, «non eravamo amiche». Troppo parvenu, Patrizia. Era arrivata ad occupare il posto con determinazione da arrampicatrice, sotto l'istigazione ferrea di sua madre Silvana Barbieri, la vera dark lady di questa storia, il cui ruolo nell'istigare Patrizia a odiare Maurizio non è mai stato veramente esplorato. Del rapporto fosco tra madre e figlia si sono avute le conferme molti anni dopo, quando la lotta per accaparrarsi il vitalizio lasciato dal povero Maurizio le ha travolte in un gorgo di odio e di cause chiuso solo dalla morte della Barbieri. Ma allora, nei due anni in cui le indagini giravano a vuoto intorno alla morte di Gucci, Patrizia Reggiani restava sullo sfondo, mai sfiorata dai sospetti semplicemente perché non aveva nessun buon motivo per ammazzare l'uomo che la manteneva in un lusso inverosimile. Così le indagini si perdevano in mille piste più o meno fantasiose. Col senno del poi, furono in molti, quando il giallo fu risolto, a dileggiare gli investigatori per come si erano affannati in giro senza vedere la lettera scarlatta che avevano davanti al naso. Alcune singolarità del carattere del defunto, certe sue disinvolture nel mondo degli affari, agevolavano d'altronde il fiorire delle ipotesi. Carlo Nocerino, oggi procuratore a Busto Arsizio, andò fino a Parigi, nel pieno di una nevicata colossale e di uno sciopero che paralizzavano la città, a interrogare Delfo Zorzi, neofascista espatriato da tempo, nella speranza che sapesse qualcosa sulla pista delle borse «tarocche» vendute sul mercato parallelo: Zorzi cadde dalle nuvole.

Poi, una mattina di mezzo inverno, ci arriva la confidenza di un amico poliziotto. Si chiama Carmine Gallo, è un veterano delle indagini sul crimine organizzato, un infaticabile creatore e coltivatore di confidenti negli ambienti più ostici. «Abbiamo risolto il caso Gucci». E chi è stato? «La moglie». Gallo sa di potersi fidare. All'arresto di Patrizia mancano ancora alcuni giorni, il giudice Maurizio Grigo ha già firmato il mandato di cattura ma bisogna aspettare che tutti i bersagli siano a portata di mano. A dover finire in galera insieme alla vedova d'oro c'è una compagnia di giro quasi incredibile fatta di malavitosi di scarso successo e di bisogno famelico di soldi. A tirare le fila c'è una maga.

Una sera arriva la chiamata di Carmine: «È per domattina». È l'ultimo giorno di gennaio. Prima dell'alba, su corso Venezia, a due passi da dove Maurizio Gucci venne ucciso, ci sono le auto senza insegne della Criminalpol. Filippo Ninni, il capo di Gallo, passeggia senza ombra di nervosismo: ne ha viste troppe, per agitarsi all'arresto di una signora. Quando il portone si apre c'è appena il tempo di intravedere Patrizia Gucci che scivola in pelliccia sull'auto. Senza manette, non la tengono neppure per le braccia. Sembra tranquilla anche lei.

In un attimo tutto riesplode, il grande circo dell'informazione planetaria impazzisce di nuovo, ripiombano a frotte i correspondent di mezzo mondo. Dietro la morte di Gucci non ci sono squallide storie di slot machines o di riciclaggio, c'è la Storia Perfetta, la gelosia, l'odio, i rancori, i quattrini, il pentito. L'infiltrato Carlos, quello che per conto di Gallo si è mischiato alla banda assoldata da Patrizia e l'ha trascinata verso le manette, diventa in un batter d'occhio un personaggio.

E le cronache si riempiono soprattutto di lei, Patrizia, che gioca fino in fondo la sua parte da milanese bene, e quando l'amica Michaela Goren va per prima a trovarla a San Vittore le dice «mi dispiace solo di non essermi potuta truccare». Incredibilmente rimane così per tutti i dieci anni al «femminile» di San Vittore; quando risbuca dal portone di corso Venezia il giorno del primo permesso sembra appena uscita dal parrucchiere, e quando tutto finisce dice «è stato un lampo».

Lasciando dietro di sé il sospetto che davvero, in questa storia senza senso, il suo cervello malato, i segni lasciati dal bisturi dei chirurghi tre anni prima del delitto, qualcosa abbiano contato.

Comunque, oggi tutti sarebbero a intervistare per l'anniversario Carmine Gallo: ma è morto.

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