Ho sempre avuto un’innata passione per le scienze naturali. Da piccola, detestavo i libri di fiabe, i racconti fantastici, le principesse e tutto ciò che mi allontanava dalla materiale concretezza della realtà. Ricordo ancora come uno dei momenti più emozionanti della mia infanzia il giorno in cui, su una bancarella di una fiera, mi venne comprata un’enciclopedia di scienze naturali, seguita, poco dopo, da due grandi volumi del Brehm, naturalista tedesco dell’Ottocento, che divennero la lettura quasi monomaniacale dei miei primi anni. Solo qualche tempo più tardi, già alle scuole medie, conobbi Charles Darwin e, naturalmente, me ne innamorai al punto tale di desiderare ossessivamente un cane Beagle, per il semplice fatto che portava lo stesso nome della nave che lo scorrazzò per cinque anni in giro per il mondo.
Proprio sulla spinta di questa infantile passione, l’altro giorno sono andata a visitare con un mio caro amico, anch’egli naturalista, la mostra allestita a Roma al Palazzo delle Esposizioni. Che emozione vedere i suoi taccuini di viaggio, rileggere le parole che conoscevo così bene, la sua grande poltrona a rotelle con la quale si spostava scivolando da un lato all’altro dello studio. Ma che emozione, soprattutto avere la conferma che il Darwin reale, l’appassionato di geologia, l’esploratore ottocentesco, il padre amorevole e il marito premuroso era drasticamente lontano dalla penosa macchietta in cui è stato trasformato dalla vulgata ideologica di questi tempi, così lontani dalla comprensione della complessità e delle sfumature.
Rileggendo la sua autobiografia, ho scoperto le affinità elettive che mi uniscono a lui. Come lui, e come la maggior parte dei naturalisti, ho cominciato verso i sei, sette anni a raccogliere e classificare i minerali - la cosa più semplice e più facile da procurarsi passeggiando. Come Darwin, sono stata un pessimo studente, perché la mia mente era sempre assorta in altri pensieri. Come lui, amo vivere con le persone care, lontano dalla mondanità. Anche se ho finito per fare tutt’altro mestiere, continuo a considerarmi un naturalista. Dopo pochi giorni di lontananza dai campi e dai boschi, comincio a soffrire, mi annoio, sento ogni cosa stretta, mentre non mi capita mai di annoiarmi in campagna, anche se, proprio come Darwin, faccio tutti i giorni la stessa, identica passeggiata.
Mi sono spesso interrogata sull’origine di questa passione, perché la dedizione alle scienze naturali esordisce sempre in età molto precoce e si manifesta in modo simile: desiderio di raccogliere, di classificare, di sapere che cos’è quella cosa e per quale ragione si trova in quel posto. Io sono nata in città e le uniche emozionanti classificazioni che potevo fare erano quelle delle erbacce che riuscivano a bucare l’asfalto. Nella mia famiglia, tranne una zia morta precocemente che non ho mai conosciuto, nessuno era in grado di distinguere un piccione da una tortora. Eppure io avevo questa febbre dentro. Qual è il nome di quella pianta, di quel sasso, di quell’animale? Sulla scia di queste letture darwiniane, ho preso nuovamente in mano anche il Brehm e gli scritti di Konrad Lorenz e sono stata colpita da un fatto che ha accomunato i tre grandi naturalisti: la serenità e armonia delle loro vite private. Avevano tutti e tre mogli amatissime con cui invecchiarono felicemente. Esiste una bellissima sequenza di foto di Konrad Lorenz con la moglie Gretel davanti allo stesso platano, a settantacinque anni di distanza. Lei, lui e l’albero, con le stesse facce affettuose e divertite da bambini e poi al compimento degli ottant’anni - dell’albero e di Konrad Lorenz. Emma, la moglie di Darwin, scriveva al marito nel 1861, dopo ventidue anni di matrimonio - ebbero dieci figli - di non aver parole per dire quanto lui la facesse felice e di quanto appassionatamente lei lo amasse e gli fosse grata di tutto il suo affetto. Lettera in calce alla quale lui aggiunse di suo pugno: «Quando sarò morto sappi che ho baciato piangendo cento volte questo foglio». La moglie di Brehm purtroppo morì di parto e da quel momento in poi anche la vita del naturalista si spense per chiudersi a cinquantacinque anni, lasciando cinque figli.
Mi sono chiesta così le ragioni di questa grande serenità e della amabilità dei loro caratteri. Nessuno di loro era fanatico, perché lo studio delle scienze naturali esclude qualsiasi idea preconcetta, qualsiasi gabbia nella quale infilare la realtà trasformandola in ciò che noi desideriamo che sia. Il naturalista vive leggendo il mondo circostante e, nel leggerlo, il sentimento che più spesso lo assale è lo stupore. All’improvviso, prova qualcosa che non credeva di provare e questo qualcosa lo spinge a interrogarsi, a fare ipotesi, a cercare di scoprire le cause e di collegare le ragioni. Darwin era partito, per il viaggio con il «Beagle», avendo principalmente come stimolo il libro di Lyell, un grande geologo dell’epoca, e probabilmente da quel libro sedimentò in lui l’idea del mutamento; quel germe che, unito alle sue straordinarie esplorazioni e anche alla sua prolungata solitudine, fece poi partorire L’origine delle specie.
Per questo provo una grande tristezza a vedere come è stato trasformato Darwin, l’uomo mite, curioso, paziente, mai fanatico, il quale, dopo anni di intenso travaglio interiore, non diventa un crociato dell’ateismo ma scrive semplicemente: «Il mistero del principio dell’universo è insolubile per noi e perciò, per quel che mi riguarda, mi limito a dichiararmi agnostico». Agnostico, dunque non ateo. Il termine agnostico fu coniato nel 1869 da Th. Huxley con riferimento all’agnostos theos, Dio sconosciuto, di cui parla San Paolo. E d’altra parte, come non comprendere, come non partecipare al suo travaglio? Anch’io, se fossi cresciuta in epoca vittoriana, in tempi in cui la Bibbia veniva interpretata in senso letterale e avessi scoperto che il mondo non era stato creato in sei giorni ma si era evoluto nel tempo seguendo delle leggi, non avrei esitato un attimo ad uscire dalla fede, come una farfalla esce dalla crisalide. Anch’io, davanti al livello di crudeltà e sofferenza presente nel mondo animale, avrei vacillato, incerta sulla bontà e sull’onnipotenza del Creatore. E tutt’ora, ogni tanto, vacillo.
La semplificazione banalizzante dei nostri tempi ha trasformato Charles Darwin nel cerbero degli atei, nel babau dei creduloni, nello spauracchio minaccioso di tutti quelli che non si arrendono alla piattezza di un’interpretazione unilaterale della realtà. O bianco o nero, con Darwin o contro Darwin, coi dementi seguaci dei santoni, delle fattucchiere e dei preti o con l’asciutta - costantemente illuminata e carica di speranza - visione della scienza. La scienza, ci viene detto, porta la luce e il sapere ovunque e tutto quello che non è ancora illuminato, presto lo sarà. La scienza, sicuramente, ci ha portato - e porta - straordinari benefici e progressi per l’uomo, ma credo non sarà mai in grado di risolvere il mistero della vita. Potrà anche farci vivere cento, centocinquanta, duecento anni ma la morte sarà sempre e comunque davanti a noi e non potrà mai spiegarci perché viviamo, il senso profondo dei nostri giorni. Come non riuscirà mai a spiegare l’origine delle leggi della natura. Da dove vengono le leggi della fisica, della matematica, della chimica? Quelle leggi che, interagendo tra di loro, hanno permesso alla materia di esistere e di evolversi nel tempo? Da dove viene questo straordinario e complessissimo ordine?
Il caso, si dice. Ma l’esperienza della nostra vita ordinaria ci dice che il caso non è in grado di generare autonomamente ordine.
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