HAROLD PINTER Un Nobel arrabbiato

L’Accademia di Stoccolma ha incoronato il drammaturgo britannico. Nel suo teatro, l’eco di Ionesco e Beckett e la cosmica sfiducia nel destino dell’uomo

L’unico che oggi non si lascerebbe sfuggire l’occasione di polemizzare contro l’assegnazione ad Harold Pinter del Nobel per la letteratura sarebbe il conte Luchino Visconti di Modrone. Irritatissimo contro il maggior drammaturgo del XX secolo per due noti motivi: averlo battuto sul tempo con la magnifica sceneggiatura della proustiana Ricerca del tempo perduto approntata per il collega Joseph Losey (per un film che non fu mai girato ma il cui script fu trionfalmente portato in scena come opera autonoma) e aver bloccato, a Roma, nel ’73, le recite di Old Times (Tanto tempo fa) per via di un allestimento definito incongruo e paradossale rispetto all’assunto romantically oneiric previsto dall’autore.
Per quanto concerne infatti la carriera del più famoso ebreo britannico, oriundo dell’East End, gli elogi si sono sempre sprecati. A cominciare da The Room, lo splendido pezzo di teatro scritto nel ’57 da un Pinter che, fino ad allora, aveva recitato i classici shakespeariani facendosi apprezzare nelle Highlands e nei piccoli centri rurali irlandesi con lo pseudonimo di David Baron.
Grande ammiratore di Ionesco, appassionatamente studiato fin dai tempi della scuola dell’obbligo, quel giovane bruno dagli occhi accesi e deliranti fu la sorpresa più eclatante di una season che, solo un anno prima dell’esplosione al Royal Court degli «angry young men» capitanati da John Osborne, vegetava sui binari della tradizione accademica. Afferrando tra capo e collo la situazione iniziale prediletta dal grande romeno, Pinter precipitava, nella «stanza» che dà il titolo al suo primo exploit, una variopinta folla di caratteri eccentrici e stralunati che a ogni passo minacciava di sommergere e far pericolosamente vacillare le certezze della vittima per eccellenza: la poor woman di nome Rose che, in attesa del marito, deve d’improvviso far fronte a una galleria di ignote parvenze che affermano di conoscerla da sempre.
Ben prima dell’illusoria ventata degli anni Sessanta col loro apparente welfare, Pinter ormai esaltato come una figura di solido ed esclusivo impianto britannico, si rivelava quindi come un geniale precursore degli impulsi intellettuali e delle più emozionanti correnti di pensiero che, solo dopo la sua folgorante comparsa, avrebbero a lungo influenzato il pensiero europeo. Forse senza di lui neppure Osborne sarebbe riuscito nell’impresa di dar vita all’esasperato vitalismo di Jimmy Porter, l’eroe negativo di Ricorda con rabbia. E soprattutto se, nel ’59, non fosse mai apparso in scena un kammerspiel perfetto come Il compleanno dove la festa, fin dalle prime battute, s’identifica con la più sinistra danza di morte che si possa immaginare e gli officianti della dannazione sono gli stessi gangster metropolitani.
Solo di recente tra i critici teatrali d’oltre Manica si cominciava, fra tortuosi distinguo e velate ammissioni, a insidiarne - come sempre accade coi miti intoccabili - il primato. C’è da sottolineare che la ricetta del «teatro della minaccia», la formula con la quale da anni si è collocato l’artigiano Pinter in una nicchia asfittica che, alla fine dei Sessanta, rischiava di imbalsamarlo, alla lunga ha finito per imprigionare l’artista paralizzandone le robuste capacità espressive. Che solo nella più alta delle sue creazioni, No man’s land, trionfalmente varata da John Gielgud e Ralph Richardson nel ’75 al National Theatre, ha trovato modo di esplicare il suo desolante messaggio d’impotenza sull’immutabilità della condizione umana. Una tesi di tale desolante laconicità («Sei in terra di nessuno. Che non si muove, che non cambia, che non invecchia ma che dura in eterno silenziosa e glaciale») da consentirci di avanzare più di un dubbio sull’ultima produzione dell’autore. Il quale, nella maturità, è tornato sulla pagina scenica come nella vita pubblica a impersonare, a volte con discutibile velleitarismo, il volto del militante di parte in aperta contraddizione col suo autentico credo anarchico e maledetto, ispirato a una cosmica sfiducia nel destino dell’uomo.
Fortunatamente a questa progressiva riduzione della sua arte a propaganda osta in modo irriducibile la sua poetica che, mentre in pubblico si compiace di denigrare l’amministrazione Bush, non riesce a dimenticare, sul palco, la maledizione della carne e l’avvento inesorabile della morte come accade nell’icastica raffigurazione del delirio del protagonista di Chiaro di luna. Perché, come accade ai poeti, qualsiasi impegno di parte si vanifica di fronte all’imperativo della scrittura. Soprattutto quando, come è il caso di Pinter, la sua arte si riassume sotto il segno dell’ambiguità. Che continuerà a regnare per anni e anni sullo schermo negli inquietanti capolavori di Joseph Losey dove è arduo discriminare, nel risultato complessivo, l’apporto dello scrittore da quello del regista.

Sia che la tragedia incomba sui verdi prati del college come avviene nell’Incidente, che nella casa padronale del Servo dove si staglia, tra il chiaroscuro dell’immagine, l’ectoplasma sfuggente di un uomo dalla bocca tesa a un riso di scherno che si chiama, guarda caso, Dirk Bogarde: il portavoce per eccellenza di un perenne stato di crisi che l’implacabile avversario di Harold - Visconti, sempre Visconti - sceglierà a impersonare Aschenbach vittima del morbo sottile che inquina, tra la carne e l’anima, la città del silenzio in Morte a Venezia. Ignorando che, dietro a Thomas Mann, nel suo film incombe, derisorio e sarcastico, il fantasma di Pinter.

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