A Hebron due «fratelli coltelli» si contendono la Cisgiordania

Il maggiore, Jibril Rajoub, 15 anni in un carcere israeliano, militante di Hamas, e il minore Nayef, leader indiscusso di Fatah, lottano per il controllo dei nove seggi più importanti della città. «Siamo nemici in politica, ma non in famiglia»

Gian Micalessin

da Hebron

La guerra comincia fuori dai seggi. «Muoviti, muoviti, dobbiamo arrivare prima dei verdi», gridacchia entusiasta il ragazzino Ahmad. Avrà quindici anni e un’ombra di barba sulle gote. I compagni lo urtano, lo spingono avanti in un cozzare di casacche gialle e di striduli slogan. Sono i gialli, gli «shabibi», i ragazzi di Fatah. La prima battaglia è davanti alla Hussein School, il più importante seggio di Hebron, di fianco al municipio. I verdi non si fanno fregare. Marciano come una falange. I gialli cercano ancora di capire come formare una fila. Loro sono già schierati, le spalle allineate, i volantini allungati, slogan nell’aria. «Hamas, Hamas solo vincerà».
Gli elettori frastornati ora devono superare le forche caudine di quest’ultima carica elettorale. Gialli e verdi non risparmiano nessuno. Volantini e santini di candidati s’infilano nelle mani, nelle tasche, nel bavero dei cappotti, nelle borse delle signore rigorosamente velate. Riecheggiano consigli e slogan assordanti. A Hebron è lotta all’ultimo sangue, lotta disperata, lotta fratricida. Nella più popolosa città della Cisgiordania, nel centro della lotta ai coloni insinuatisi fin dentro il mercato palestinese, nella circoscrizione con nove seggi al nuovo Parlamento, solo un cognome e due nomi oggi contano. Uno si chiama Jibril, l’altro Nayef. Il cognome per entrambi è Rajoub. Dentro quella famiglia si gioca oggi la guerra per il controllo dei nove seggi più importanti della Cisgiordania. Rajoub, 52 anni, il fratello anziano, il militante sbattuto in galera per 15 anni e poi deportato dagli israeliani, il colonnello che mise paura ad Arafat e precipitò dalle stelle all’infamia, è di nuovo in sella, di nuovo in gara. Ma Nayef, il fratello 48enne, gli sbarra la strada. In quei quattro anni di differenza ci sono due mondi, due visioni della vita e della lotta. Jibril non ha più il codazzo di Mercedes nere e jeep blindate che segnalavano il suo passaggio da Ramallah a Hebron quando, non più di quattro anni fa, era il potente e indiscusso capo della sicurezza preventiva. Amici e nemici lo conoscevano come il «re». La Cia aveva fortificato la sua sede e addestrato i suoi uomini. Gli israeliani erano sempre pronti a incontrarlo segretamente. «Altri tempi», dice oggi con il vocione rauco eternamente rabbioso, eternamente scocciato, «oggi siamo tornati in mezzo al popolo, in mezzo alla gente, siamo la vecchia Fatah di una volta, quella che rappresenta i militanti e il popolo e lotta per la liberazione dei prigionieri politici».
I nuovi tempi Jibril se li porta cuciti addosso. Abbandonati i gessati e le giacche doppio petto di un tempo gira in maglione e giaccone, schiacciato assieme alla scorta in un’unica jeep. Suo fratello Nayef non ha dovuto compiere metamorfosi. Non è mai stato un militante arrabbiato. Non ha mai partecipato a un solo atto di violenza. Fosse per lui Hamas resterebbe legato alla tregua concordata a Sharm el Sheikh. «Ufficialmente quella tregua non esiste più, ma devo dirlo sinceramente, sarei più felice se gli israeliani non ci offrissero più alcun pretesto per nuove operazioni. Le armi non le possiamo consegnare, ma se loro smettono di uccidere i nostri militanti neppure noi riprenderemo a sparare». Nonostante tutto, anche Nayaz lo scorso anno si è ritrovato in una prigione israeliana. «Ma quello - dice - è normale per qualsiasi attivista o militante di Hamas».
Alla fine degli anni 70, mentre suo fratello languiva in un carcere israeliano, lui studiava in Giordania. La svolta iniziò lì, tra le fila dei Fratelli Musulmani. Quell’esordio lo ha portato a guidare oggi la battaglia fondamentalista a Hebron. L’eliminazione di tutte le cellule armate delle Brigate Ezzedin al Qassam e l’uccisione per mano israeliana dello sceicco Ahmad Yassin e di Abdel Aziz Rantisi, i due capi di Hamas a Gaza, ha riconsegnato il controllo dell’organizzazione ai fratelli musulmani e alla dirigenza moderata. E Nayef è emerso accanto al fratello come il leader e l’avversario indiscusso. «Ma non siamo mai diventati nemici. All’interno della famiglia lui resta sempre il mio fratello maggiore», racconta al Giornale Nayef con quell’indole gentile e rispettosa così diversa da quella dell’irascibile Rajoub. «Se parliamo di politica però è un altro discorso. Rajoub non è certo corrotto - precisa Nayef -, ma molta parte di Fatah lo è. Per i palestinesi è diventata il simbolo del caos che regna qui e a Gaza, il simbolo dell’incapacità di amministrare con equità e correttezza questi territori, il simbolo delle ingiustizie commesse da chi comanda nei confronti del popolo. Per questo mio fratello sa che è condannato alla sconfitta e io so che vincerò».
La vecchia quercia Jibril intanto non si arrende. Tradito e trascinato nella polvere durante l’assedio di Ramallah del 2002, quando dovette consegnare agli israeliani il suo quartier generale e i militanti rifugiatisi dentro, trattato come un paria da quando Arafat gli sputò addosso e gli puntò contro la pistola, Jibril ha pian piano ricostruito la sua reputazione. Ha vinto le primarie di Fatah, ha riconquistato l’appoggio dei Geber, degli Idris e delle altre famiglie che a Hebron rappresentano il vecchio potere feudale, ha stretto un’alleanza di ferro con Marwan Barghouti, e nonostante il suo passato da vecchio «re» si è rigenerato nella lista dei giovani leoni di Fatah.

«Hamas non può vincere perché non sa governare e non ha nessuna esperienza in politica internazionale - sostiene -, dicono di voler mettere ordine, ma una loro vittoria porterebbe il vero caos. L’unico modo per riportare la stabilità è rigenerare Fatah, trasformarla nuovamente in un grande partito. Solo così potremo resistere a Israele, andare ai negoziati e raggiungere un accordo di pace».

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