«Hezbollah non sarà il padrone del Libano»

Gian Micalessin

da Beirut

Là sotto il cerchio si stringe. Arrivano nuovi pullman. Si piantano nuove tende. Gli altoparlanti mitragliano gli inni di una protesta sempre più alta, sempre più numerosa, sempre più minacciosa. «Lunedì sarà un giorno nuovo», vaticina, sull’onda delle marce fragorose, Al Akhbar, il quotidiano di Hezbollah parlando della grande manifestazione di oggi. «Vedrai la sorpresa, bloccheremo ministeri, porti, aerei e strade - promettono i granitici miliziani di Hezbollah allineati davanti all’ultimo passaggio per il Granserraglio.
Dietro a loro, ai dimostranti, all’esercito e ai reticolati, restano solo i miliziani in blu, la Forza di sicurezza interna. Il sergente Marwan ti squadra, controlla l’appuntamento, indica la piazza rumorosa, accarezza la sua pistola Beretta. «Se vogliono entrare faranno i conti con noi».
Al secondo piano del massiccio palazzo ottomano, sede, pensione e prigione del governo il ministro Ahmed Fatfat, ti accoglie come un premuroso padrone di casa. «È vero, ormai ci vivo come a casa mia - confessa mentre fa strada negli infiniti corridoi -, ci ho passato la guerra quest’estate, ci sono tornato tre settimane fa dopo l’assassinio di Pierre Gemayel, da quel giorno vivo in simbiosi con il premier Fouad Siniora e gli altri ministri... Mangiamo, ceniamo assieme... Siamo in riunione permanente, e non solo per paura degli attentati, né per i blocchi di quelli là sotto... Restando qui dentro siamo certamente più sicuri, ma anche più squadra... Siamo diventati amici capaci di riunirci e di decidere in un baleno».
Ministro degli Interni ad interim fino a 15 giorni fa, quando il sunnita Hassan Sabbeh si riprese la poltrona abbandonata a febbraio, Ahmed Fatfat, 53 anni, già uomo di fiducia del premier assassinato Rafik Hariri, continua a fare il braccio destro di Siniora anche dallo Sport. I fondi sauditi e americani impiegati per trasformare la vetusta Forza di sicurezza interna in una milizia efficiente e fedele al governo Siniora sono stati gestiti da lui. Fatfat si guarda bene, però, dal presentarla come l’antidoto contro i colpi di mano di Hezbollah. «Difende il governo e quindi - spiega - è di tutti i libanesi... I soldi usati per armarla sono donazioni passate per le casse dello Stato, finanziamenti ufficiali, diversi dalle centinaia di milioni dollari in nero spesi ogni anno da Hezbollah... Dei loro soldi nessuno conosce origine e provenienza».
A dar retta al fiducioso Fatfat gli anatemi pronunciati giovedì dal segretario generale di Hezbollah, Hasan Nasrallah, non rappresentano una minaccia imminente. «L’accusa di aver collaborato con Israele qui equivale a una condanna a morte, a un invito a uccidere, ma è difficile prendere sul serio chi ti chiama traditore e poi vuole fare un governo con te. Nasrallah minaccia e urla, ma è solo nervoso... Si sente con le spalle al muro perché il vasto sostegno al nostro governo blocca le sue manovre. Lui muove centinaia di migliaia di persone, e noi potremmo fare lo stesso. Noi, però, vogliamo evitare un confronto di piazza pericoloso per l’intero Paese. L’altra sera ci minacciava urlando e gesticolando con quel tono invasato mi ricordava Adolf Hitler, stavolta, però, la forza non basta, questa partita non si vincerà con la pressione della piazza, ma negoziando».
Fatfat sfodera la sicurezza di chi è sicuro di poter contare su protettori illustri, ma da buon sunnita si guarda bene dal citare Washington. «L’America qui fa i propri interessi o aiuta Israele... Non possiamo contarci... I sauditi e gli altri Paesi arabi invece ci sostengono con solerzia, sanno di dover evitare questo golpe, conoscono le pericolose ingerenze di Iran e Siria e il tentativi di modificare gli assetti regionali». Iran e Siria, secondo il ministro, lavorano dietro Hezbollah e le altre forze filosiriane, ma rincorrono obbiettivi discordanti. «Alì Khamenei, la suprema guida iraniana, promette di usare il Libano come cavallo di battaglia contro l’America, ma al di là degli slogan siamo solo un capitolo all’interno dei loro piani per l’egemonia regionale. Un Libano dilaniato dalla guerra civile non fa al caso loro, l’Iran ha bisogno di un Libano integro e unito, ma controllato politicamente. Per Damasco è diverso... Un Libano dilaniato può, nell’ottica siriana, spingere la comunità internazionale ad accettare un ritorno al passato».
Quando gli ricordi che là sotto ci sono anche i cristiani del generale Michel Aoun, Fatfat risponde con un sorriso infastidito.

«Questo è un Paese di profeti e di vittime dei propri capi, Aoun è un anziano pronto a tutto pur di conquistare la presidenza, ma non sembra un buon candidato. Lui e i suoi di certo non sono in grado di sloggiarci. Torni lunedì, ci troverà ancora qua... E più in forma di oggi».

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