«Ho massacrato donne e bambini nel Darfur»

Scappato dal Sudan, dopo un lungo viaggio da clandestino, si è rifugiato in Gran Bretagna

Gian Micalessin

All’inizio fu solo siccità. Siccità africana. Fiato torrido. Arsura maledetta che spacca la terra, sbriciola l’erba, arroventa l’aria, asseta mandrie e uomini. Incominciò come natura comanda, finì con l’orrore degli uomini. Dily ricorda bene. Ricorda l’infinito transumare. Gli anziani della tribù, le tende arrotolate, le mandrie smagrite davanti, gli uomini e le donne consumati dall’arsura dietro. Verso il verde, verso l’acqua, ai confini del proprio mondo. Là dove, prima, mai avevano camminato. Fino al Darfur nero, dove il Sudan è già Africa e l’arabo un nemico. Dove i neri coltivano i campi e i nomadi sono cavallette. Inizia così una guerra, anche se Dily ancora non lo sa. La guerra che lo porterà via, lontano, oltre il Mediterraneo e l’Europa. Fin lassù, tra i mattoni a schiera del Sud di Londra, tra pendolari disattenti, tra sopravvissuti come lui. Ma la sua storia, raccontata alla Bbc, è unica, diversa, distinta da tutte le altre. È il primo comprovato resoconto delle stragi pagate, ordinate, commissionate dal governo sudanese ai «janjaweed», i predoni arabi terrore del Darfur. Il primo e unico racconto autentico sui «demoni a cavallo» che, in tre anni, hanno trasformato in profughi sfiniti e affamati due milioni di neri del Darfur, massacrato duecentomila loro simili. Certo Dily, nome di comodo e volto coperto «perché mia moglie e mia figlia sono ancora lì», può essere un furbone qualsiasi. Un emigrato alla ricerca di un facile asilo per motivi politici. Ma la sua storia raccontata ai capi della comunità del Darfur a Londra, ripetuta agli esperti, che da anni denunciano quel genocidio, suona unica e autentica. «È tutto vero», ripete Ishah Mekki, numero due dell’Unione del Darfur a Londra. «Abbiamo verificato, quell’uomo è proprio quello che dice di essere», conferma James Smith, numero uno dell’Aegis Trust, capofila del movimento contro il genocidio nel Darfur.
Quell’uomo senza volto ha meno di 25 anni, eppure non ricorda neppure quanti uomini e quante donne abbia ucciso. «Avrò attaccato trenta villaggi, arrivavamo a cavallo o con i cammelli, ammazzavamo donne, uomini, bambini, bruciavamo le capanne, se alla fine qualcuno non era ancora morto, lo lasciavamo agonizzare, se non lo finivano le ferite ci pensavano fame e sete... Se sopravviveva il suo racconto diffondeva ancor più paura».
Quei fantasmi popolano le notti di Dily. Non lo lasciano dormire. Iniziò con quella maledetta arsura e gli emissari di Khartoum all’accampamento. Parlarono a lungo, e alla fine gli anziani radunarono giovani e guerrieri. «Dovete proteggere le nostre terre, i nostri diritti di nomadi, le nostre mandrie, il governo vi aiuterà a farlo». Il giorno dopo Dily e 20 altri come lui partono con i cammelli per Kebkabiya. Il rivolo di ragazzi incrocia quello di altri villaggi, diventa fiumana, confluisce in un campo d’addestramento dove centinaia di migliaia di giovani arabi attendono di trasformarsi in «janjaweed», diavoli a cavallo. I soldati in divisa di Khartoum ci mettono venti giorni a spiegare come si spara con un kalashnikov, come si attacca, come si uccide, come si bruciano villaggi e vite umane. In venti giorni sono pronti per l’orrore. Dily e altre cinquecento reclute formano un unico battaglione. Li guida un ex bandito. Li paga il governo. Ricevono 750 euro «una tantum» per ogni cammello messo a disposizione e 200 euro di paga al mese. Da quel momento Dily non si ferma più. «L’ordine del governo è attaccare i villaggi, spetta al comandante del battaglione decidere quali», ricorda Dily. I preferiti sono quelli indifesi. Quelli dove gli scout in avanscoperta non vedono l’ombra di un kalashnikov. «Allora attacchiamo subito, distruggiamo, sterminiamo, in poche ore ce ne andiamo... Se ci sono uomini armati dobbiamo fare più attenzione, studiare l’assalto, al caso chiedere l’appoggio di Khartoum». Succede spesso.
Il comandante, il Barabba che li guida, ha un telefono satellitare. Serve soprattutto a quello. Basta chiamare e attendere. Poche ore e arrivano gli elicotteri, seminano bombe e piombo. «Quando vediamo il fumo e le fiamme allora andiamo, ricordatevi, raccomandano i comandanti, non si deve salvare nessuno, né donne, né bambini... Noi così facciamo, entriamo in groppa ai cammelli spariamo su chiunque si muova, gridiamo “morte agli schiavi, morte agli schiavi”, svuotiamo i caricatori nelle schiene, le maciulliamo sotto gli zoccoli dei cammelli... Sono quasi sempre donne, quasi sempre bambini, tutti civili». Non tutti muoiono subito, non le ragazze almeno. Dily giura di non averlo mai fatto, ma di averlo visto fare spesso. Quasi sempre. «Le portano dietro le tende, le violentano una ad una, se si rifiutano le uccidono subito, altrimenti immediatamente dopo». Dura tre anni. Dimettersi, mollare tutto, fuggire, non si può. Chi diserta muore. Dily continua, ma uccidere, massacrare, sterminare ormai gli dà il voltastomaco. Continua fino a quando la nausea è più forte della paura.

Una notte molla tutto. Fugge in Libia, sbarca in Italia, arriva il 20 settembre scorso in Inghilterra. Racconta tutto alla Bbc. E domani, come annuncia un membro del governo britannico, alla Corte internazionale per i crimini di guerra.

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