Paolo Armaroli
Se al tavolo della roulette si punta contemporaneamente sul rosso e sul nero, di sicuro non si vince; ma è altrettanto pacifico che non si perde. E in questi tempi calamitosi, nei quali ognuno teme di pagare il conto, l'importante è non buscarle di santa ragione. Sarà per questo che i nostri maggiori partiti hanno ritenuto opportuno piazzare propri esponenti nel comitato promotore dei referendum elettorali e, al tempo stesso, prenderne in qualche misura le distanze perché a loro avviso il campanello d'allarme referendario indurrà il Parlamento a essere in prima persona l'artefice della riforma elettorale.
Ora, coloro che danno a intendere di saperla lunga sostengono che il professor Giovanni Guzzetta, dopo essersi inventato il referendum elettorale del 1993 che con un gioco di prestigio ci ha dato un sistema elettorale per tre quarti maggioritario a collegio uninominale, adesso concede il bis a bella posta. Sì, perché se il premio di maggioranza verrà concesso non più alla coalizione vincente ma al partito più votato, passeremmo dal bipolarismo al bipartitismo. E così approderemmo, dopo aver sognato a occhi aperti per un secolo e mezzo, sulle rive del Tamigi. Un referendum «per», dunque, e non «contro». Fatto sta che i soliti bene informati sostengono che Guzzetta, lo voglia o no, non sarebbe altro che il braccio armato di Romano Prodi. Perché consegnerebbe all'attuale presidente del Consiglio quel Partito democratico del quale più si parla e più sembra allontanarsi all'orizzonte.
La partita è ancora tutta da giocare e nessuno scopre fino in fondo le proprie carte. Prodi, che viene indicato a torto o a ragione come il beneficiario dell'operazione referendaria, fa il pesce in barile. Sia che dica ciò che pensa sia che pensi a ciò che dice, è un disastro: una gaffe dietro l'altra. Forse perché ha la coda di paglia, tiene comunque a precisare che lui non c'entra. E aggiunge che della materia «deve occuparsi il Parlamento». I Ds più che a un partito assomigliano a una gabbia di matti. Nella migliore delle ipotesi, si dividono in tre come la Gallia di Giulio Cesare. Così Filippeschi e Tonini mettono i piedi dentro il piatto referendario. Salvi, pezzo da novanta del Correntone al quale il Partito democratico provoca l'orticaria ogni volta che se ne parla, sostiene che con i referendum elettorali si passerebbe dal porcellum al superporcellum. Dulcis in fundo, Anna Finocchiaro per una volta tanto dà i numeri. Sostiene infatti che il referendum è nientemeno che «una scorciatoia, e neppure troppo elegante».
Alla Finocchiaro, che è una convinta riformista, non manca nulla. È bella, colta e intelligente. Ma, capogruppo dell'Ulivo al Senato, avverte il logorio della vita moderna. A Palazzo Madama non ha un attimo di respiro. Basta un passo falso, un'assenza di Tizio o di Caio, e il governo va sotto e rischia di rompersi l'osso del collo. Giurista provetta, deve far di conto con il pallottoliere. Stressata com'è, si improvvisa Petronio o Lord Brummel e disquisisce sull'eleganza.
D'altra parte, fin dai tempi dell'Assemblea costituente i comunisti non hanno mai visto di buon occhio l'istituto referendario. Lo hanno ridimensionato allora per la prima volta, una seconda volta nel 1970 in occasione dell'approvazione della legge di attuazione e una terza tra il 1976 e il 1979, ai tempi della Solidarietà nazionale, quando presentarono svariate proposte di legge costituzionale intese a limarne ben bene le unghie perché ai loro occhi ha il torto di disturbare il manovratore. E, come i bravi di manzoniana memoria, dicono che i referendum elettorali non s'hanno da fare. Post o no, hanno avuto sempre la puzzetta sotto il naso e si sono tenuti alla larga dal sudore di un popolo che va guidato dall'alto per il suo bene.
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