I cattivi maestri e le epoche dell’arte

Ho cercato, con qualche difficoltà, nell'editoriale della settimana scorsa, di far intendere la differenza tra critica e caricatura. A un certo punto, la caduta delle virgolette, ha confuso i due registri, le mie parole, e quelle di Achille Bonito Oliva. Soltanto chi ha avuto la resistenza di arrivare in fondo all'articolo può essersene accorto. Se, stremato, non ha perduto l'attenzione che un articolo di giornale non sembra richiedere. Eppure, la mia ansia didattica, mi spinge a chiarire, a spiegare mantenendo alta l'indignazione contro quei cattivi maestri, la cui mistificata autorità determina danni incalcolabili.
Chiunque avrà notato, infatti, che, oggi, è quasi impossibile capire quali siano gli artisti meritevoli, e quali i criteri per intenderne l'importanza e la novità. Dopo le avanguardie di inizio del secolo scorso, non è ancora chiara quale sia la definizione di un nuovo linguaggio. È certo invece che, al di là della pittura, alcuni passaggi potentemente provocatori hanno determinato effetti imprevedibili che spiegano le difficoltà nel riconoscere un artista da un millantatore. Sono tanti gli episodi di difficile interpretazione nel corso del Novecento; ma certamente la provocazione, per la sua stessa natura, ha assunto il significato di gesto potentemente estetico.
L'inizio è, probabilmente, l'Orinatorio, o Fontana, di Marchel Duchamp del 1915 (opera oggi perduta, ma la cui forza di feticcio è tale che un vendicatore, o provocatore esponenziale, ha colpito con una martellata come chi vuole infrangere un mito); in seguito, dopo diversi conati non risolti in opera è nei «tagli» di Lucio Fontana; subito dopo si registra la memorabile «merda d'artista» di Piero Manzoni; infine, nel 1972, chiude la serie l'epica esibizione del giovane down alla Biennale di Venezia nella enigmatica visione di Gino Dedominicis.
Tutto era cominciato con il manifesto futurista, dove i valori erano a tal punto rovesciati da indicare l'automobile come «più bello» (allora era di genere maschile) della «Nike» di Samotracia. Ma molto del processo che porta l'idea a essere più importante della esecuzione materiale si deve, incredibilmente, all'ultimo, più ostinato, pittore: Giorgio De Chirico. Il suo processo mentale annulla addirittura il tempo e gli consente di realizzare la medesima opera anche a distanza di sessant'anni, diventando autentico falsificatore di se stesso.
È forse proprio in questo genio del paradosso che si può ricercare l'origine dell'errore che induce Bonito Oliva, come il più ignorante degli studenti, a non dar valore alla cronologia, insistendo nel considerare Raffaello un artista del Quattrocento. Al di là delle polemiche con la sua visione dell'Arte Contemporanea, tante volte manifestate, è proprio una sofferenza (più ancora che una indignazione) quella che provo verificando il suo compiacimento nel ripetere con orgoglio e arroganza una insensatezza.
Ed è questo che mi preme fare intendere ai miei lettori, per amore della verità e della storia, e non per antipatia nei confronti di un critico. Immagino che Bonito Oliva, laureato, abbia insegnato le stesse cose che scrive nel suo corso universitario di «Istituzioni di Storia dell'Arte» alla facoltà di Architettura di Roma. È vero che la Facoltà non è molto impegnativa, come dimostra la prevalente incultura di molti architetti (e forse ne ha responsabilità lo stesso Bonito Oliva), ma risulta comunque enorme prima affermare poi ribadire: «Raffaello, ripeto (come dice Argan), è il più grande artista del Quattrocento; la sua opera non appartiene alla turbolenza, all'ansietà, al furor neoplatonico del Cinquecento, ma, piuttosto, all'armonia quattrocentesca».
Ora, tutto possiamo dire, meno che Raffaello sia un nostalgico, un passatista. Nato nel 1483, egli è il più grande innovatore del linguaggio artistico moderno. Non so cosa Bonito Oliva intenda per «armonia quattrocentesca», ma certamente Raffaello è il più alto titolare di quella armonia cinquecentesca che, prima del Manierismo (percorso da varie turbolenze) rappresenta il carattere dei grandi classici. Occorrerà, per esempio, ricordare che alla diminutiva definizione di Ludovico Ariosto (autore de L'Orlando Furioso nelle tre edizioni, ovviamente tutte cinquecentesche, del 1516, del 1521, del 1532), come esponente di «arte per l'arte», suggerita da Francesco De Sanctis, il grande Benedetto Croce sostituì quella di «poeta dell'armonia». Lo stesso si può dire di Raffaello, il quale inventa un nuovo linguaggio, totalmente rivoluzionario e dotato di quella dolcezza ideale senza i residui delle teorie geometriche e prospettiche di Piero Della Francesca, di Signorelli, e di quelli che sarebbero stati i modelli, per eccellenza, del gusto detto «pre-raffaellita». Raffaello ne è il superamento, insieme al primo Michelangelo, per naturalezza, per eleganza, «per armonia», e lavorando in nuovo stile nei primi vent'anni del Cinquecento (morirà nel 1520). Allo stesso modo, pienamente cinquecenteschi, a Venezia, superando il gusto quattrocentesco di Giovanni Bellini e di Vittore Carpaccio, saranno Giorgione e Tiziano. Il nuovo stile, il Cinquecento, ha i loro nomi, di veri e propri nouveaux philosophes: Raffello Michelangelo Giorgione e Tiziano; la portata della loro rivoluzione linguistica è pari a quella dei futuristi rispetto all'Ottocento (i primi manifesti futuristi sono del 1909 e del 1910); o del Kandinsky astratto del 1910, rispetto ai figurativi.

Proprio in virtù di quella energia che Bonito Oliva intende così bene nell'arte del Novecento non è possibile che insista a considerare Raffaello, con stridente contraddizione, un pittore del Quattrocento. Lo dico con una certa sofferenza. Non voglio fare la maestrina, ma lui la smetta (per infantile cocciutaggine), di fare il cattivo maestro.
Vittorio Sgarbi

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