I comunisti danno a Prodi lezioni di democrazia

Dei «104 disegni di legge varati dal governo, solo 10, e nemmeno tra i più importanti, sono stati approvati dalle Camere». Così parlò Romano Prodi con l’aria ispirata di Zarathustra. E mal gliene incolse. Perché tutti - dal presidente della Camera Fausto Bertinotti al suo omologo del Senato Franco Marini, dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al leader dell’opposizione Silvio Berlusconi - lo hanno bellamente redarguito. Il più spietato è stato proprio Bertinotti, che si è sentito, forse più di ogni altro, soggetto percosso. L’ex leader di Rifondazione comunista, ossia di un partito che tiene in vita quest’ombra di governo, ha espresso parole durissime nei confronti dell’inquilino pro tempore di Palazzo Chigi. Eccole: «Il premier forse è fuorviato dalla scarsa dimestichezza con le aule parlamentari. Il dibattito parlamentare è il sale della democrazia, non può essere strangolato da interpretazioni restrittive dei regolamenti parlamentari». E ha concluso, gettando sale sulla piaga: piuttosto il governo abbandoni «la scorciatoia dei decreti legge».
Bertinotti non poteva dire meglio. Così si collega idealmente a un suo illustre predecessore. Ai tempi in cui Sandro Pertini, socialista dalla testa ai piedi, era presidente della Camera, una delegazione del suo partito gli chiese udienza. Una volta a tu per tu, gli fu chiesto di dare una interpretazione restrittiva al regolamento di Montecitorio allo scopo di battere l’ostruzionismo condotto dall’opposizione. Pertini a queste parole non replicò minimamente. Si limitò a suonare il campanello. Quando il commesso si affacciò al suo studio, lo invitò ad accompagnare alla porta compagni di partito che si erano permessi di fare a un galantuomo come lui una proposta considerata indecente. Peraltro, Prodi ha torto marcio su tutta la linea. Se alla fin fine è rimasto con un pugno di mosche non può per decenza incolpare né la legge elettorale, perché nessuna legge elettorale potrà garantire in assoluto la governabilità finché avremo due Camere con le medesime funzioni, né l’opposizione, che fa semplicemente il proprio mestiere, né i regolamenti parlamentari, e segnatamente quello della Camera.
No, Prodi in un soprassalto di onestà intellettuale deve gettare la croce unicamente su se stesso. L’80% dei tempi parlamentari sono a disposizione del governo e della sua maggioranza. E poiché la maggior parte dei provvedimenti legislativi è contingentata, se non vanno in porto è solo perché la maggioranza è pirandellianamente una, nessuna e centomila. E, lacerata su tutto, stenta a trovare la quadra. Ma il nostro beneamato presidente del Consiglio ci mette pure del suo. L’ultima Finanziaria, infarcita di una infinità di commi grazie alla posizione di una delle tante questioni di fiducia, grida vendetta. E i decreti legge, da strumenti eccezionali, sono ormai la regola. In barba alla Costituzione. L’articolo 77 della nostra Carta è violato più della vecchia di Voltaire. Né ha avuto miglior fortuna la legge sull’ordinamento della presidenza del Consiglio, secondo la quale i decreti legge devono avere un contenuto omogeneo. Mentre sono diventati dei salsicciotti dove il governo mette di tutto un po'.
Né stupisce l’intervento del capo dello Stato.

Parlamentare di lungo corso ed ex presidente della Camera, conosce alla perfezione le regole del gioco. E il sermoncino uscito da Palazzo Chigi deve avergli provocato l’orticaria. Difatti spetta a lui la promulgazione delle leggi. E non può perdere la faccia.
paoloarmaroli@tin.it

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