I cuori in «Antartide» tra scienza, solitudine ed eutanasia

Le pagine finali di Antartide (minimumfax, pagg. 156, euro 13) di Laura Pugno posano sull’intreccio e contengono una pistola, un rapimento e una caccia all’ultimo respiro nella foresta. Ma ciò che più conta è che la prima parte del romanzo posa sulla scrittura, fa a meno dei più scontati trucchi del mestiere e conferma il talento della scrittrice di Sirene, nonché il ruolo che ha saputo conquistarsi: quello di una giovane, temibile regina del perturbante. I personaggi di Antartide sono organismi senza emozioni, ai quali la Pugno attribuisce latenti pulsioni autodistruttive. È proprio a causa di un suicidio sventato che il protagonista, Matteo, un ricercatore impegnato nello studio dei ghiacci polari, viene rispedito in Italia. Lì riceve una telefonata che gli comunica la morte improvvisa del padre. L’uomo, un luminare della psichiatria, avrebbe dovuto raggiungere una casa di cura alla quale, si scoprirà, ha destinato la sua cospicua eredità. Quando Matteo raggiungerà «La casa di Miriam» - questo il nome dell’inquietante istituzione - s’accorgerà che non si tratta di un semplice ricovero per pensionati... Atlantide è un romanzo ambientato nel mondo della ricerca scientifica, un mondo alla moda dopo il successo di Houellebecq. Se i luoghi della scienza (laboratori, stazioni geologiche) sono dei non-luoghi, uno dei punti di forza della Pugno consiste nell’estendere l’atmosfera anonima che vi regna alle stanze più domestiche, fino a lasciare che essa colonizzi l’anima, diventata una sorta di non-luogo interno. Quanto al tema dell’eutanasia, è solo sfiorato, come si limitava a sfiorarlo un altro romanzo spezzato in due, Accabadora della Murgia.

Ma la Pugno non ha bisogno di attirare il lettore con temi giornalisticamente succulenti: per questo bastano le sue ossessioni. La malattia contagiosa e tuttavia ereditaria, il tempo rarefatto, l’afasia: tutto pare simboleggiare un avvenuto, e ormai passato in giudicato, inaridimento dell’animale-uomo.

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