I giudici assolvono Marrazzo: «È vittima di un’imboscata»

RomaQuella organizzata ai danni di Piero Marrazzo fu una vera e propria imboscata. Sapevano bene i carabinieri poi arrestati per il video-ricatto, che in casa del trans Natalie, in via Gradoli, avrebbero trovato l’ex governatore del Lazio. Conoscevano le «debolezze» dell’uomo politico ed è facendo leva su queste che lo scorso luglio lo hanno incastrato, irrompendo nell’appartamento e «condendo» la scena per renderla più imbarazzante.
I giudici della Cassazione, nella sentenza depositata ieri, spiegano perché lo scorso 24 febbraio hanno confermato le misure cautelari per i militari coinvolti. Non regge neppure davanti alla Suprema Corte la tesi difensiva secondo la quale l’irruzione sarebbe stata decisa «per verificare la consistenza della notizia confidenziale ricevuta dall’informatore Gianguarino Cafasso sullo svolgimento di festini con droga». Era Marrazzo che volevano e sapevano dove trovarlo. E lui, l’ex governatore, proprio nel giorno in cui la Suprema Corte lo «riabilita», rompe un silenzio durato sei mesi («scelto per rispetto ai giudici, degli investigatori e dell’Arma»). «Ero e sono una vittima e un testimone di quanto avvenuto - dice Marrazzo, visibilmente dimagrito, abbronzato, capelli quasi rasati - ed è importante che ciò sia stato affermato dalla Cassazione. Mi sono assunto le mie responsabilità verso i cittadini e gli elettori dimettendomi per colpe che sono personali e che hanno coinvolto anche la mia famiglia». Un tasto, quello degli affetti, che in questa vicenda ha avuto un ruolo fondamentale. E su questo Marrazzo si sofferma: «Ringrazio mia moglie e le mie figlie che mi sono state sempre vicine rispettando il mio silenzio e sopportando tutte le falsità dette: ho una famiglia splendida». Parlando del suo futuro l’ex governatore si è detto pronto a rientrare in Rai: «Sono a disposizione dell’azienda, tornerò a fare il mio lavoro nella comunicazione».
Per la Cassazione, dunque, il blitz era stato preparato. E Luciano Simeone e Carlo Tagliente hanno fatto in modo che le immagini del video fossero più compromettenti possibile. Per questo hanno impedito a Marrazzo di tirarsi su i pantaloni. «La ripresa in mutande - scrivono i giudici - aveva evidentemente, per i fini perseguiti dagli indagati, ben maggiore effetto e ben altro valore, così come altro valore avrebbe avuto la scena del crimine se fosse stata opportunamente “condita” dalla presenza di droga». Ecco dunque comparire la cocaina sul tavolino, con accanto la «tessera personale della vittima affinché non vi fossero dubbi sull’identificazione del personaggio» al quale non si voleva dare scampo. I giudici sono durissimi con i carabinieri. Sottolineano che la loro condotta durante l’irruzione in casa del trans e nei giorni successivi non è certo «riconducibile a quanto ci si aspetterebbe da rappresentanti delle forze dell’ordine». Simeone e Tagliente non hanno mai verbalizzato il loro intervento, né informato i superiori, né sequestrato lo stupefacente, né perquisito l’appartamento. Hanno pensato solo a filmare Marrazzo «in atteggiamento compromettente». «Riprese - si legge ancora nelle motivazioni - le cui modalità non erano certo quelle di assicurare, a fini di giustizia, le tracce di reati, o di individuare i colpevoli di condotte delittuose, ma solo di registrare situazioni scabrose per ottenere indebiti vantaggi». I giudici respingono anche i tentativi dei difensori degli indagati di gettare discredito sull’ex governatore, ribadendo che Marrazzo è una vittima e che nulla autorizza ad ipotizzare «condotte delittuose contro di lui». Neppure la presenza della cocaina nella casa può gettare discredito su di lui.

E non solo perché le indagini hanno dimostrato che a portarcela sono stati i carabinieri («per rendere Marrazzo più vulnerabile»), «ma anche perché, se pure la droga l’avesse portata l’ex governatore, nessuna conseguenza di natura penale avrebbe potuto derivargliene, trattandosi di droga chiaramente destinata al consumo personale». Irrilevante sotto il profilo penale anche l’uso dell’auto di servizio per andare in via Gradoli, «dal momento che di quest’auto era autorizzato a servirsi».

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