I giudici si occupino dei processi lumaca

Dato lo stato comatoso della giustizia italiana, era sensato supporre che un dibattito sui provvedimenti da adottare e sulle cure da praticare avesse essenzialmente carattere pratico. Serve o no, la legge sprezzantemente battezzata come «salvapremier», ad accelerare il percorso dei processi importanti? (Badate bene: la qualifica salvapremier non è un elemento marginale della polemica. In anni ormai remoti l’averla bollata come legge truffa portò alla bocciatura d’una legge elettorale saggia, che avrebbe risparmiato all’Italia tanti guai d’instabilità).
Invece, se ci badate bene, la querelle è stata avviata sia verso l’empireo dei supremi principi (viene o no violata l’obbligatorietà dell’azione penale?) sia verso la miseria pettegola dell’antiberlusconismo (accade che tra i milioni di fascicoli messi a riposo per un anno ve ne sia anche uno o qualcuno riguardante il Cavaliere?). Non importa che la giustizia sia agonizzante. Importa di poter coinvolgere il Cavaliere tramite l’avvocato inglese Mills.
Per quanto riguarda i principi, mi limito a osservare - ripetendo considerazioni già fatte da altri - che l’obbligatorietà dell’azione penale è una barzelletta. Vige in Italia la totale discrezionalità dell’azione penale. Quando un Pm nella cui cancelleria giacciono da tempo immemorabile migliaia di fascicoli ne attiva uno trascurando gli altri segue una logica che può essere giusta o sbagliata, ma che è totalmente sua, non imposta da regole assolute.
C’è chi grida allo scandalo per l’altolà a procedimenti risalenti a prima del 2002, e che in sei anni non hanno fatto nemmeno un passettino in qua. Ma autorevoli magistrati non noti per la simpatia verso Berlusconi, semmai per il contrario, hanno spiegato che l’allarme è infondato, e pretestuoso. Marcello Maddalena aveva di sua iniziativa adottato un criterio analogo a quello che con le norme in discussione verrebbe generalizzato. Il suo vice Bruno Tinti si pronuncia senza esitazioni a favore della salvapremier. «Sfoltirebbe d’un colpo il mio lavoro del cinquanta per cento». È invece contro le misure anti intercettazioni. Comunque aggiunge, sconsolatamente, che per quanto riguarda il diritto alla giustizia «la gente è fregata».
Lo è. Ma non, e questo è il punto, per la protervia d’un potere oppressivo che vincola e minaccia i sacerdoti della legge. Lo è perché i sacerdoti della legge - magistrati e avvocati, con eguali responsabilità - sono riusciti ad allestire uno dei più inefficienti, più lenti, e di conseguenza più iniqui sistemi giudiziari del mondo sviluppato. L’Associazione nazionale magistrati, che è in sostanza un partito delle toghe con correnti, maggioranze, minoranze, addebita lo sfacelo a colpe esterne, non a colpe interne dell’organizzazione: e mette sotto accusa i governanti, addebitando loro propositi anticostituzionali e golpisti, e indignandosi poi se gli invisi governanti replicano con analoga asprezza.
I leader dell’Anm, che professano in generale una cristallina laicità, mi ricordano - per strano che possa sembrare - la logica dello Stato della Chiesa. Uno Stato che faceva politica come gli altri Stati, ma giuocava su due scacchieri e all’occorrenza usava nei confronti dei nemici armi spirituali quali la scomunica e l’anatema. I magistrati si comportano allo stesso modo.

Polemizzano da politici, ma se ripagati d’uguale moneta invocano la sacralità del loro ruolo e delle loro decisioni. Pretendono troppo. Stiano al concreto - ossia si occupino della semiparalisi della macchina giudiziaria - e ci guadagneremo tutti.

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