I «lumbard» a Cavour: basta tasse

«Eccellenza, mi sono azzardato di avanzare queste preghiere in quanto che sarebbero sussidiate dalle assicurazioni che già degnavisi di darmi Sua Maestà il Re, che cioè il ceto degli impiegati non avrebbe sofferto dell’attuale riordinamento, e che per la Città di Milano si avrebbe avuto ogni possibile grazioso riguardo». È il 1° gennaio 1860, e a rivolgersi al politico più influente del nuovo Stato italiano, Camillo Benso di Cavour, è il primo podestà di Milano, il conte Luigi Barbiano di Belgioioso. Che in una lunga lettera dai toni perentori, si fa portavoce del crescente malessere dei cittadini per la nuova riforma del governo in materia fiscale e del lavoro. Il carteggio è riportato nel rarissimo saggio di Ugo Bassani del 1932 «Una lettera inedita di Camillo Cavour a Luigi Barbiano di Belgioioso», che viene ripubblicato in questi giorni in anastatica (compresa la copertina originale con il fascio littorio) dalla Fondazione Labus-Pullé presieduta dall’avvocato Pierpaolo Cassarà, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Al di là della curiosità storica, il documento è interessante perché affronta una delle questioni più spinose e attuali della politica italiana: quella dei rapporti fra la Lombardia e lo Stato italiano. A ben guardare infatti, le proteste dei milanesi, nel 1860, sembrano le stesse avanzate oggi dal Nord leghista nei confronti del governo di Roma. Per capirle, occorre fare un passo indietro. Siamo all’indomani dell’annessione della Lombardia al regno d’Italia, e il nuovo governo - il ministero Lamarmora-Rattazzi, succeduto a Cavour - aveva esteso lo statuto piemontese alle nuove province del regno senza tener conto degli ordinamenti locali previgenti. Ben si comprende il disagio della Lombardia, dove ancor vivo resta il ricordo delle amministrazioni illuminate di Maria Teresa d’Austria e di Napoleone III, e quel ricordo non si può spegnere d’un tratto con le affrettate disposizioni piemontesi. Da qui la decisione del conte di Belgioioso di rivolgersi a Cavour, ovvero l’uomo che l’opinione pubblica, all’unanimità, rivuole alla guida del nuovo Stato. Nella missiva, il podestà lo mette in guardia dal «malumore per alcune disposizioni governative», quali «l’improvviso collocamento in istato di aspettativa di alcuni impiegati col trattamento di due terzi di stipendio», che per alcuni di essi «non basta al mantenimento delle famiglie». O ancora «le traslocazioni di impiegati milanesi senza indennizzo di spesa» e le nomine di altrettanti, piemontesi, «assunti ad impieghi pei quali si esigevano studi che essi non hanno percorsi». Per non parlare dell’iniqua politica fiscale: «Dal confronto di essa con quelle delle antiche province – sottolinea il podestà - ne emerge una rispettabile differenza ad aggravio delle prime». Sembra di sentire in queste poche righe il manifesto leghista del federalismo, le rivendicazioni del Carroccio sulle gabbie salariali, o la polemica sulla crisi della terza settimana. Ma c’è di più. In fondo alla lettera traspare anche un malcelato (e un po’ «bossiano») avvertimento: l’auspicio che talune disposizioni «non abbiano a germogliare sentimenti sfavorevoli al governo di Sua Maestà, che tutti anzi desideriamo sia rispettato e amato». Non si fa attendere la risposta di Cavour: una breve ma concisa nota, datata 6 gennaio 1860, da cui emerge tutta l’abilità dialettica e diplomatica del consumato statista, che approfitta della momentanea vacatio dal governo per astenersi «da ogni ingerenza nell’amministrazione dello Stato».

Ma che confida nel «Signor Conte» affinché col suo ascendente convinca i milanesi, «i quali sono anzitutto ottimi italiani, a non turbare con premature opposizioni l’ulteriore svolgimento della grande questione nazionale». A buon intenditor...

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