I rischi di votare il 9 aprile

Paolo Armaroli

Nell’incontro che il ministro Pisanu ha avuto nei giorni scorsi al Quirinale con il presidente Ciampi, quest’ultimo avrebbe ventilato l’ipotesi di uno scioglimento tecnico delle Camere il 9 febbraio 2006 e di elezioni il successivo 9 aprile. Ma, a quanto pare, l’inquilino del Colle è stato frainteso. Nessuna «decisione», la sua. Ma una mera eventualità. Come è emerso dal colloquio, «disteso, cordiale, collaborativo», registratosi martedì tra il capo dello Stato e il presidente del Consiglio. Meglio così. Tanto più che il cosiddetto ingorgo istituzionale invocato dalla sinistra c’entra come il cavolo a merenda in quanto la Costituzione lo sbroglia bravamente.
Votare il 9 aprile sarebbe una iattura. Difatti le regole del gioco stabilite dalla legge fondamentale della Repubblica correrebbero il rischio di andare a gambe all’aria. Con tanti saluti alla certezza del diritto. Mentre se si votasse il 7 maggio, come sembrerebbe propendere Berlusconi, tutto filerebbe liscio come l’olio. Nel segno della Costituzione.
Queste Camere, elette il 13 maggio 2001, si sono riunite 17 giorni dopo. Perciò scadranno il 30 maggio 2006. L’articolo 61 della Costituzione stabilisce che le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti. Se si prendesse alla lettera tale disposizione, potrebbero verificarsi - come in questo caso - elezioni in piena estate. Ecco perché il capo dello Stato ha fatto sovente ricorso a uno scioglimento parlamentare per così dire tecnico, che anticipa di poco la fine naturale della legislatura. D’altra parte l’articolo 11 del Testo unico delle leggi per l’elezione della Camera dice che i comizi elettorali sono convocati con decreto del presidente della Repubblica su deliberazione del Consiglio dei ministri. Perciò spetta al governo fissare la data delle elezioni.
Sebbene la dottrina sia divisa, il decreto di scioglimento sembrerebbe un atto formalmente e sostanzialmente presidenziale. Altrimenti non si spiegherebbe perché il testo originario della Costituzione, modificato nel 1991, ne escludeva il ricorso negli ultimi sei mesi del settennato. Fatto sta che, salvo lo scioglimento del 1994 fortissimamente voluto da Scalfaro, il Quirinale - accertata l'impossibilità di formare un gabinetto vitale - è sempre stato il notaio della partitocrazia. Dato che il governo Berlusconi durerà invece l’intera legislatura, sarebbe assurdo tirarle il collo anzitempo. Anche perché in tal caso non potrebbe condurre in porto svariati disegni di legge di primaria importanza.
Se si votasse il 9 aprile sarebbe un bel guaio sotto ogni riguardo. Perché il nuovo presidente della Camera, che dovrà riunirsi entro venti giorni, è tenuto a convocare il Parlamento in seduta comune per l’elezione del successore di Ciampi trenta giorni prima della sua scadenza. Ossia il 18 aprile, visto che l’inquilino del Colle ha giurato il 18 maggio 1999. Ma i conti non tornano. Perché di sicuro il 18 aprile le Camere non faranno in tempo a riunirsi. E così il successore di Casini, non appena eletto verso la fine di aprile, da un lato non potrebbe rispettare il predetto termine costituzionale dei trenta giorni. E dall’altro, dovendosi nel frattempo eleggere i delegati regionali e procedere alla verifica dei loro titoli, si vedrebbe costretto a riunire il Parlamento in zona Cesarini, quando Ciampi sarà ormai prossimo alla scadenza. Con il rischio, se il Parlamento non eleggerà il suo successore entro il 18 maggio, di doversi far luogo o a una improbabile prorogatio dell’attuale capo dello Stato o verosimilmente alla supplenza del presidente del Senato, che sostituisce l’inquilino del Colle in caso di assenza o di impedimento. Un bel pasticcio, non c’è che dire. Anche perché non esistono precedenti al riguardo.
Qualora le elezioni si tenessero il 7 maggio, non ci sarebbe invece alcun problema. Perché scatterebbe l’articolo 85, terzo comma, della Costituzione.

Se le Camere sono sciolte, o manca meno di tre mesi alla loro cessazione, l’elezione del capo dello Stato ha luogo entro quindici giorni dalla riunione delle Camere nuove. Nel frattempo sono prorogati i poteri del presidente in carica. Questa è la strada maestra. Mentre l’altra complicherebbe terribilmente le cose.

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