I servitori dello Stato dimenticati da Fassino

Sul tema della fermezza o della trattativa - quando si abbia a che fare con i terroristi - Sergio Romano e Piero Fassino hanno dialogato nelle colonne del Corriere della Sera. L’articolista, preso lo spunto dalle dichiarazioni con cui Fassino confessava d’essere pentito per avere a suo tempo aderito all’idea che con i brigatisti rossi non si dovesse negoziare, svolgeva un suo ragionamento di diplomatica sottigliezza. Si rifaceva all’«identità storica» propria d’una nazione, d’un partito, di una chiesa per concludere - credo di sintetizzare correttamente - che l’erede di Berlinguer non dovrebbe mettere in discussione il modo in cui la Dc e il Pci affrontarono il sequestro di Aldo Moro.
Il segretario diessino ha replicato, con prosa a mio avviso piuttosto contorta e imbarazzata, spiegando i motivi della sua conversione alla flessibilità. Cito qualche frase: «Non credo affatto che se avessimo ottenuto la liberazione di Moro, la nostra lotta al terrorismo sarebbe poi diventata meno intransigente». «Il punto non è, dunque, se trattare o no, ma come salvare una vita senza che questa scelta alteri o stravolga la coerenza di una linea politica e gli impegni per la stabilità, la sicurezza e la pace che il nostro Paese è chiamato ad assolvere».
Interessante dibattito. Purtroppo caratterizzato - in una selva di dotti argomenti - da un’assenza sorprendente: l’assenza cioè d’ogni accenno ai cinque uomini di scorta che furono sterminati dal commando brigatista. Sia Sergio Romano sia Piero Fassino discutono del «caso» Moro - e di riflesso del caso Mastrogiacomo, determinante per la svolta aperturista del segretario - come se il dilemma d’allora avesse riguardato soltanto un’impostazione politica, e di tecnica dell’antiterrorismo. Giusto o no trattare? L’interrogativo, quale che sia la posizione di ogni interrogato (e la mia personale opinione resta di totale adesione alla linea di Berlinguer e di Andreotti) non dev’essere proposto in questa forma monca. Il vero interrogativo è: giusto o no per lo Stato trattare dopo che cinque suoi servitori erano stati ferocemente fatti fuori, a freddo: così a freddo che l’ostaggio designato poteva essere catturato incolume? Era accettabile che si venisse a patti con gli assassini, inducendo lo Stato a una abdicazione miserabile e classista (cosa potevano mai valere le vite di poveri carabinieri e poliziotti in confronto a quella d’un grande notabile democristiano)?
Questo è il vero dilemma. Fassino può al massimo appellarsi al successivo sequestro dell’esponente democristiano di Torre del Greco Ciro Cirillo, catturato nell’aprile del 1981 dopo una sparatoria nella quale avevano perso la vita il suo autista e un sottufficiale di scorta. In un torbido negoziato, e con il pagamento di una grossa somma, Cirillo fu liberato dopo tre mesi di prigionia. Vi fu un cedimento, anche se non dello Stato in prima persona, e comunque Cirillo era un politico minore. Ma la pagina indecorosa fu quella di Cirillo, non quella di Moro. Mi rendo conto, scrivendolo, di quanto questa logica possa apparire crudele alle famiglie dei sequestrati. Così come può apparire crudele la confisca - per evitare il pagamento d’un riscatto - del patrimonio dei rapiti.
In sottofondo a questa polemica sta - anche se Fassino assicura che non gli è nemmeno passato per la testa nel suo ripensamento - la vicenda di Daniele Mastrogiacomo. Anche lì un morto, l’autista afghano, che nello scomposto tripudio per la liberazione dell’inviato di Repubblica era praticamente scomparso dalle cronache e dalle orazioni autocelebrative delle Alte Autorità.

Desaparecido, ed egualmente desaparecidos sono i cinque sventurati che si sacrificarono per Moro, e che Moro non menzionò mai nel suo fluviale epistolario dalla prigionia. Cinque da dimenticare nella versione aggiornata del fassinopensiero. Non sono d’accordo.
Mario Cervi

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