I soldi? In Campania. E il Veneto perde il treno

Qualcuno potrà obiettare che in fondo in fondo «noblesse oblige» e che il vanto storico rappresentato dalla prima linea ferroviaria italiana - quella inaugurata il 3 ottobre 1839 da Napoli a Portici, un brivido di nove minuti e mezzo per percorrere 7,2 chilometri con 258 passeggeri a bordo! - vorrà pur dire ancora qualcosa. Considerazione sacrosanta, ci mancherebbe. Fatto sta che viene un po’ da sorridere, se in verità non ci fosse ben più di che piangere, a scorrere i dati e le cifre relativi ai finanziamenti statali piovuti dal 1990 a oggi in Campania e Veneto per la realizzazione dei rispettivi Sfmr, acronimo che significa Sistemi ferroviari metropolitani regionali. Ovvero, tanto per rendere l’impronunciabile acronimo quantomeno comprensibile, si tratta di quei matassoni fatti di linee ferrate e locomotive, di convogli e di stazioni, di segnaletica e di quantaltro dovrebbe servire per trasportare persone e cose da un punto all’altro di un territorio.
Pioggia di finanziamenti, si diceva? Forse sarebbe meglio frenare gli entusiasmi. E magari usare con più attenzione i termini meteorologici dal momento che, a ben vedere, queste «precipitazioni» di denaro hanno avuto un andamento tutt’altro che equanime. Miliardi contro milioni, tanto per intenderci. I primi corsi veloci come Frecce rosse dirette senza fermate in Campania e i secondi arrancanti invece al ritmo di accelerati, con destinazione finale le lande comprese tra la laguna Serenissima e le Dolomiti. Si è trattato di una non equanimità peraltro bipartisan, considerati i colori dei governi succedutisi in questo arco di tempo. Questo per dire che se dal 1990 a oggi sul sistema ferroviario campano ha letteralmente diluviato, i bravi veneti sono rimasti invece con gli occhi rivolti al cielo nell’attesa che arrivasse quantomeno una spruzzata. E al massimo di una spruzzata si è trattato, infatti.
Detto più nel dettaglio e in cifre, a Napoli e dintorni sono stati stanziati, erogati e già spesi fino a oggi 3 miliardi di euro, ai quali bisogna aggiungere la bazzecola di altri 2,5 in fase attuale di cantiere. Soldi trasformatisi così in 54 chilometri di nuove linee (altri 50 chilometri sono in via di realizzo), in 39 nuove stazioni (più altre 30 che stanno sorgendo), nonchè in nuovi convogli (costati solo loro 440 milioni).
E il Veneto? Come ci informa il quotidiano locale, il Gazzettino di Venezia, è rimasto proprio come il binario della canzone di Claudio Villa: triste e solitario. Quasi a secco. Lì, dal 1990 ai giorni nostri i vari governi susseguitisi hanno fatto piovere al massimo le proverbiali «quattro gocce». Nel dettaglio, la miseria di 182 milioni di euro (ovvero il 50% di quanto era stato chiesto) già spesi per la fase 1. Quanto alla fase 2, i 100 milioni che erano stati previsti hanno preso la strada dell’Abruzzo terremotato.
Consolerà forse un pochino i veneti l’aver fatto una buona azione, pur se obtorto collo. Li consolerà un po’ di più la concreta prospettiva che quei 100 milioni, come assicura Renato Chisso, assessore regionale alle Infrastrutture, «ci saranno ristornati».

Non li consolerà invece proprio per nulla il fatto che proprio nella loro terra, quella ribattezzata «Locomotiva d’Italia» per via dell’indubbia e indiscussa capacità di lavorare, produrre e correre a testa bassa, i treni invece continuano ad arrancare e a sbuffare, quasi che fossero ritornati all’epoca del carbone e del vapore.

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