Sono tanti, 5 milioni, uno ogni dodici italiani. Un terzo rumeni, che nellEuropa allargata non hanno più bisogno di passaporto. Eppure sono molti meno di quanti sembrino a noi, che forse per questo continuiamo ad averne paura. Creano anche l11,1% del Pil, dichiarano ormai al fisco un imponibile di 33 miliardi di euro, mentre si scopre che faccno entrare nelle casse nazionali un miliardo in più rispetto a quanto costino. E quando non lo creano - sono 400mila le imprese fondate da loro, il 3,5% di quelle italiane - vanno a insediarsi là dove li porta il lavoro.
Messi giù in estrema sintesi, sono questi i dati principali che emergono dalla lettura del ventesimo dossier Caritas-Migrantes, fotografia più aggiornata di ciò che è oggi il pianeta immigrazione in Italia. Una presenza, quella degli stranieri residenti, che nellultimo decennio ha subito una fortissima spinta con la triplicazione delle presenze (pari a 3 milioni in più) rispetto al 2000. E con un ulteriore balzo di un altro milione di unità nellarco del solo ultimo biennio. E se è vero che a inizio anno lIstat aveva registrato 4 milioni e 235mila residenti titolari di un diverso passaporto, è un fatto che il Dossier della Caritas ha dovuto spostare lasticella più in alto, a quota 4 milioni 919mila.
Appare chiaro come i numeri, specie quando sono grandi numeri, facciano innanzitutto discutere. Anche animatamente. Il rapporto rivela infatti come gli italiani, complice probabilmente la crisi economica e troppa cronaca nera, abbiano una percezione molto amplificata del fenomeno. Stando ai Transatlantic Trends del 2009, risulta infatti che gli italiani, almeno a naso, valutino la presenza degli stranieri addirittura tre volte maggiore di quanto essa sia in realtà. A spanne, la loro presenza percepita, come si usa dire della temperatura atmosferica, sarebbe del 23%, il che vorrebbe dire 15 milioni di presenze. Con lo stesso metro di valutazione, il comune sentire è che i clandestini sarebbero più numerosi dei regolari, questo mentre le stime reali li accreditano al mezzo milione di unità.
Forse, a lasciar parlare soltanto i numeri, che per loro natura non hanno né idee né ideologie, e tantomeno paure, il quadro emergente in prospettiva dal dossier non dovrebbe invece preoccupare eccessivamente. Che lItalia in dieci anni sia già cambiata, e che sia destinata a farlo ancor di più in quelli a venire, resta senza dubbio un fatto incontrovertibile, oltre che un fenomeno di enorme rilevanza e di inevitabile impatto sociale. Che rischia, però, di far velo ad altro.
Perché dellaltro cè e ce lo dicono appunto parecchi numeri. La distribuzione della presenza straniera in Italia conferma per esempio come la molla a emigrare rimanga ancora quella del lavoro e del miglioramento delle condizioni economiche. Non sarà infatti un caso che sia proprio la Lombardia, da sola, a ospitare un quinto di tutti gli stranieri (982.225, cioè il 23,2%), seguita dal Lazio con l11,8%, dal Veneto con l11,3% e dallEmilia Romagna con il 10,9%. Gli immigrati tendono insomma a concentrarsi là dove ci sono le maggiori opportunità economiche e di lavoro.
E se cè, fuori di dubbio, anche chi ci marcia cercando di prendersi una fetta di quella ricchezza con mezzi non legali, sbalordisce in senso positivo la dimensione della giovane imprenditoria nata dallimmigrazione. Sono 400mila gli stranieri titolari di impresa, ovvero ormai uno ogni 30, con il caso eclatante dei pizzaioli egiziani che a Milano hanno superato per numero quelli napoletani.
E oltre al fatto che alle casse pubbliche gli stranieri costano un miliardo di euro in meno rispetto a quanto fanno entrare, cè da considerare il contributo (7,5 miliardi annui) dato al sistema previdenziale di un Paese che irrimediabilmente invecchia. Oggi tra gli immigrati residenti cè solo un pensionato ogni 30 rispetto a un italiano ogni 4. Nel 2025 loro saranno uno ogni 12, mentre il nostro rapporto sarà di uno a tre.
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