Come si fa ad uscire da una dimensione difensiva e incerta nei concetti e nei termini con i quali si difende una riforma necessaria di libertà e responsabilità? La prima questione da richiamare è che la dignità del lavoro non sta nella sua protezione corporativa, nel fatto che chi è dentro, è dentro, e chi è fuori, è fuori, in una sicurezza fondata su immobilismo e stagnazione. Il lavoro è un bene, se non vogliamo dire una merce per non scandalizzarecerto solidarismo della parte più conservatrice della cultura cattolica, e renderlo disponibile per tutti, questo bene, con il massimo coefficiente di stabilità produttiva e di qualificazione, lo rende dignitoso come bene sociale, come elemento decisivo non solo della Costituzione, che è un documento astratto di principi, ma dell’organizzazione economica di una società aperta.
Non era dignitoso il lavoro dei paesi socialisti, frutto di pianificazione e tutela che fruttavano bassi salari, condizioni tutorie complementari alla mancanza di libertà politica e civile, l’immobilismo mostruoso delle economie di stato. Anche la vecchia idea paternalistica dell’impresa, una cellula economica autarchica del capitalismo di origini agrarie, inscindibilmente legata alle fortune di una famiglia, in cui l’ala padronale che faceva scudo ai dipendenti, era pagata dalla loro cultura e pratica devozionale verso il parùn e il suo vecchio business .
Non è questione di monotonia del posto fisso, psicologismo sbagliato e controproducente: è che il posto garantito a scapito di chi è fuori,l’economia del solidarismo autoreferenziale, è la negazione della capacità di svilupparsi, di crescere nella ricchezza per tutti, in condizioni di libertà responsabile.
L’impresa deve funzionare e fare la sua missione specifica, creare lavoro, ingrandirsi e specializzarsi, competere nel mercato dei beni e dei servizi, riuscire nel suo progetto: solo in questo quadro il lavoro è la personificazione di una vita professionale dignitosa, promuove mobilità tra le generazioni e all’interno delle generazioni, ti mette in grado di essere padrone di te stesso anche quando sei un lavoratore dipendente.
Non è vero che un giudice, salvo il diritto imprescrittibile alle cause di lavoro per verificare la autenticità delle ragioni economiche di un licenziamento, sia la figura giusta per decidere del futuro di un’impresa e dei suoi lavoratori.
Non è vero che dobbiamo scegliere il modello tedesco, è un inganno perché tutti sanno che il modello tedesco è la cogestione con i sindacati dell’impresa, e nel segno di una egemonia della classe imprenditoriale, di una adesione non classista delle organizzazioni sociali agli scopi dell’impresa, e lì i magistrati del lavoro sono solo l’estrema risorsa e sono una scuola di educazione civile al diritto oggettivo, non una casta di sostenitori dei valori di solidarietà e, come hanno scritto in sentenza i giudici di Potenza che hanno reintegrato i lavoratori Fiat che avevano bloccato una linea di montaggio, di «forte antagonismo».
Su questi problemi, su queste verità, la gente deve essere disingannata e disincantata. Bisogna dirla tutta, perché le verità parziali e imbarazzate non consentono una battaglia leale per la serietà della discussione nel paese su una legge che può ridare fiducia agli investitori, creare più lavoro anche per i giovani e le donne, stabilizzare diritti che il blocco del lavoro in uscita ha sempre sacrificato.
Chi mette su un’impresa e rischia i propri capitali, il proprio lavoro, la propria vita professionale in quell’impresa sarà incentivato a fare, e a fare meglio, se non è prigioniero di una tutela illogica delle posizioni acquisite nella pianta organica, se ha il potere ciclico di modellare la forza lavoro sugli scopi e le condizioni di vita della «ditta».
E chi lavora la sua dignità non la trae dalla «giusta causa» come automatismo di tutela, oltre tutto un arnese inservibile nell’economia mobile e globale, ma dal successo del sistema delle imprese, dalla creazione di un mercato del lavoro che funziona.
E in un senso non poi così paradossale, come scrissero Francesco Giavazzi e Andrea Alesina, se «sinistra» è concetto di progresso contro la conservazione di ideologie patriarcali, allora un mercato del lavoro
libero è una cosa di sinistra.Finché non sapremo essere chiari su questo, molta gente si terrà le sue paure, sapientemente alimentate da chi non crede nella società aperta e nel capitalismo, e ha una cultura veteroclassista.
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