Abolire l’articolo 18 è una mossa di sinistra

Il posto garantito a scapito di chi è fuori, nega la possibilità di ricchezza per tutti L’imprenditore che rischia i propri capitali non può essere prigioniero dell’organico

Abolire l’articolo 18  è una mossa di sinistra
Non si può di­re che la ri­forma del­l’articolo 18, nella parte che riguarda la facoltà dell’impresa di licenziare, ce la chiede l’Europa. Va bene, è vero, ma non basta. Non si può di­re che lo si fa a malincuore, che è una missione di rigore imposta dalle circostanze. È vero anche questo, ma non basta. Molta gen­te, probabilmente la maggioran­za, teme che questa riforma sia essenzialmente un indebolimento della pro­tezione sociale per legge dagli spiriti animali del mercato, e una lunga stagione di predicazio­ne e di esperienza parasociali­sta, concertativa, statalista e assi­stenzialista ha messo la coscien­za pubblica in uno stato di in­comprensione e di disagio. Non esagererei nemmeno la considerazione di questi senti­menti, perché siamo pur sempre un paese che, quando un gover­no decisionista come quello di Craxi fece saltare il meccanismo punitivo per lo sviluppo della scala mobile dei salari, votò a fa­vore in un referendum. Vero che erano gli anni Ottanta, un perio­do di fiducia fattiva nella capaci­tà di creare ricchezza dell’econo­mia e di sfiducia forte nell’azio­ne pansindacalista di contrasto al funzionamento del capitali­smo, e oggi la situazione è diver­sa anche per il costo che la crisi finanziaria ci ha riversato addos­so, ma fu pur sempre una storica sorpresa il voto contrario a un be­neficio sociale che si esprimeva in moneta sonante nelle buste paga. A certe condizioni, dimo­strammo di saper essere una co­munità capace di un giudizio ma­turo su sé stessa, sconfiggendo la demagogia sociale più ottusa. Ma che si de­ve dire allora?

Come si fa ad uscire da una dimensione di­f­ensiva e incer­ta nei concetti e nei termini con i quali si di­fende una ri­forma necessa­ria di libertà e responsabili­tà? La prima questione da richiamare è che la dignità del lavoro non sta nella sua protezione corporativa, nel fatto che chi è dentro, è dentro, e chi è fuori, è fuori, in una sicurez­za fondata su immobilismo e stagnazione. Il lavoro è un bene, se non vogliamo dire una merce per non scandaliz­zare­certo soli­darismo della parte più con­servatrice della cultura cattoli­ca, e renderlo disponibile per tut­ti, questo bene, con il massimo coefficiente di stabilità produtti­va e di qualificazione, lo rende di­gnitoso come bene sociale, co­me elemento decisivo non solo della Costituzione, che è un do­cumento astratto di principi, ma dell’organizzazione economica di una società aperta.

Non era dignitoso il lavoro dei paesi socialisti, frutto di pianifi­cazione e tutela che fruttavano bassi salari, condizioni tutorie complementari alla mancanza di libertà politica e civile, l’im­mobilismo mostruoso delle eco­nomie di stato. Anche la vecchia idea paterna­­listica dell’impresa, una cellula economica autarchica del capi­talismo di origini agrarie, inscin­dibilmente legata alle fortune di una famiglia, in cui l’ala padro­nale che faceva scudo ai dipen­denti, era pagata dalla loro cultu­ra e pratica devozionale verso il parùn e il suo vecchio business .

Non è questione di monotonia del posto fisso, psicologismo sbagliato e controproducente: è che il posto garantito a scapito di chi è fuori,l’economia del solida­rismo autoreferenziale, è la ne­gazione della capacità di svilup­parsi, di crescere nella ricchezza per tutti, in condizioni di libertà responsabile.

L’impresa deve funzionare e fa­re la sua missione specifica, crea­re lavoro, ingrandirsi e specializ­zarsi, competere nel mercato dei beni e dei servizi, riuscire nel suo progetto: solo in questo qua­dro il lavoro è la personificazio­ne di una vita professionale di­gnitosa, promuove mobilità tra le generazioni e all’interno delle generazioni, ti mette in grado di essere padrone di te stesso an­che quando sei un lavoratore di­pendente.

Non è vero che un giudice, salvo il diritto imprescrittibile alle cau­se di lavoro per verificare la au­tenticità delle ragioni economi­che di un licenziamento, sia la fi­gura giusta per decidere del futu­ro di un’impresa e dei suoi lavo­ratori.

Non è vero che dobbiamo sce­gliere il modello tedesco, è un in­ganno perché tutti sanno che il modello tedesco è la cogestione con i sindacati dell’impresa, e nel segno di una egemonia della classe imprenditoriale, di una adesione non classista delle or­ganizzazioni sociali agli scopi dell’impresa, e lì i magistrati del lavoro sono solo l’estrema risor­sa e sono una scuola di educazio­ne civile al diritto oggettivo, non una casta di sostenitori dei valo­ri di solidarietà e, come hanno scritto in sentenza i giudici di Po­tenza che hanno reintegrato i la­v­oratori Fiat che avevano blocca­to una linea di montaggio, di «for­te antagonismo».

Su questi problemi, su queste ve­rità, la gente deve essere dis­in­gannata e dis­incantata. Biso­gna dirla tutta, perché le verità parziali e imbarazzate non con­sentono una battaglia leale per la serietà della discussione nel paese su una legge che può rida­re fiducia agli investitori, creare più lavoro anche per i giovani e le donne, stabilizzare diritti che il blocco del lavoro in uscita ha sempre sacrificato.

Chi mette su un’impresa e ri­schia i propri capitali, il proprio lavoro, la propria vita professio­nale in quell’impresa sarà incen­tivato a fare, e a fare meglio, se non è prigioniero di una tutela il­logica delle posizioni acquisite nella pianta organica, se ha il po­tere ciclico di modellare la forza lavoro sugli scopi e le condizioni di vita della «ditta».

E chi lavora la sua dignità non la trae dalla «giusta causa» come automatismo di tutela, oltre tut­to un arnese inservibile nell’eco­nomia mobile e globale, ma dal successo del sistema delle im­prese, dalla creazione di un mer­cato del lavoro che funziona.

E in un senso non poi così para­dossale, come scrissero France­sco Giavazzi e Andrea Alesina, se «sinistra» è concetto di pro­gresso contro la conservazione di ideologie patriarcali, allora un mercato del lavoro

libero è una cosa di sinistra.

Finché non sapremo essere chia­ri su questo, molta gente si terrà le sue paure, sapientemente ali­mentate da chi non crede nella società aperta e nel capitalismo, e ha una cultura veteroclassista.

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