Aiutiamo gli immigrati a rimanere nel loro paese

Il miglior alleato del razzismo è il buonismo isterico che produce chiacchiere e non soluzioni. L'unica strada è il realismo solidale

Aiutiamo gli immigrati a rimanere nel loro paese

Noi meridionali, di qualunque parte del Sud, siamo abituati a vivere sul confine d'acqua del Mediterraneo. Da quando l'Italia è diventata terra di immigrazione, abbiamo visto quel confine continuamente attraversato, giorno dopo giorno, da migliaia di disperati alla ricerca di pane e lavoro. L'arrivo degli albanesi sulle coste di Puglia, che mi vide giovanissimo volontario, ormai è archeologia dei flussi migratori. Sappiamo accogliere, a Meridione, noi che siamo multirazziali per storie e per definizione, meticci che nel sangue abbiamo i normanni e i saraceni, i celti e le genti di Bisanzio.

Dunque, dare del razzista a un italiano di Meridione è ridicolo, e se esiste un qualche meridionale razzista (razzista, dico, non uomo spaventato dalle invasioni) è un pover'uomo che non ha coscienza delle proprie radici, e non sa da dove viene. Personalmente, da destra sono sempre stato un sostenitore dell'idea di un'Italia e di specialmente di un Sud multiculturale, sapendo che l'italianità è un concetto culturale e non biologico o razziale, anzi l'esatto contrario, perché è l'incrocio di razze, popoli e culture che ha reso grandissima ed enormemente ricca la nostra storia patria, e così variopinto il nostro popolo. In poco più di vent'anni abbiamo accolto una quantità enorme di immigrati, caso unico continentale. Ma proprio noi italiani di Sud, più di altri, che ovunque andiamo troviamo subito fratellanza con i popoli del Sud del mondo, sappiamo che i confini sono importanti, e la sovranità di una nazione si misura sulla capacità di presidiarli, di decidere chi sta dentro e chi sta fuori, chi è cittadino e chi no, chi sta dentro le maglie della solidarietà e chi non ha diritto di stare sul suolo nazionale come un fantasma privo di identità.

L'esistenza del confine è il presupposto della solidarietà vera. Per questo trovo imbarazzante, autolesionista, surreale, la piega che il dibattito pubblico avviene ogni qual volta si abbatte sulle coste e, come pugno, sui nostri stomaci occidentali l'ennesima tragedia del mare che inghiotte decina, e stavolta centinaia di clandestini. Solo un animo bestiale può rimanere impassibile di fronte ai cadaveri, ai corpi e corpicini ripescati davanti a Lampedusa, è naturale che la Chiesa e il volontariato, oltre alle strutture pubbliche, si mobilitino per risolvere l'ennesima, drammatica, emergenza.

Ma tutto questo non c'entra niente con il dopo, con il «che fare», con l'assurdità di una nazione sovrana lasciata da sola a gestire gli sbarchi, l'accoglienza, le espulsioni, a fare da porta scorrevole per l'ingresso in Europa. Tutto questo non c'entra nulla con la verità che anche e soprattutto di fronte alle tragedie va raccontata: se esiste l'Occidente, se ancora resistono le nazioni occidentali, il problema dei flussi migratori illegali deve essere affrontato e gestito dove partono le rotte dei disperati, non al punto d'arrivo. Gli scafisti non devono solo essere arrestati: non devono partire.

Tornare in Africa, e rimediare ai danni che una gestione dissennata e poco lungimirante degli accordi transfrontalieri continua a provocare alle nazioni dell'Europa meridionale, è l'unica strada per evitare morte e illegalità, per impedire che l'industria dello sfruttamento continui a mietere vittime e depositare sulle nostre coste un'umanità che solo in piccola parte riuscirà a trovare reali strumenti di integrazione, e in gran parte finirà nelle mani del caporalato o delle reti di commercio illegale.

Intolleranza? No, realismo solidale. Il miglior alleato del razzismo è l'utopismo umanitarista che produce chiacchiere, e non soluzioni. Noi, come italiani e come meridionali, non abbiamo proprio nulla di cui vergognarci.

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