Da Bartali a Cavani Ci vuole fede per giocare da Dio

Non basta allenarsi per diventare un campione. Serve una consapevolezza che viene dall'alto

Esultanza per il terzo gol personale di Edinson Cavani
Esultanza per il terzo gol personale di Edinson Cavani

Lo sport somiglia molto alla vita, e può essere religioso o irreligioso come lo è la vita. Quello che lo differenzia dalla vita di tutti i giorni è che per sua natura lo sport tende a portare i gesti della vita all'estremo. Camminare, correre, saltare, trastullarsi con una palla tra i piedi o nelle mani, lanciare o gettare qualcosa, farla a botte, andare in bici, compiere un gesto bizzarro per far colpo su qualcuno - proprio come fanno i cervi o i galli cedroni.
Lo sport conduce tutte queste cose al limite nel quale un uomo è costretto a domandarsi: ce la potrò fare?
Uno sguardo superficiale può condurci a concludere che è tutta questione di preparazione, che la macchina umana si può programmare e che perciò il record del mondo, o il gol spettacolare, o la vittoria più strepitosa non siano altro che la «conseguenza» di una preparazione mirata a condurre l'atleta fino a quel punto. Ma l'atleta sa che le cose non stanno così. Noi persone comuni possiamo al più immaginarlo, ma sapere è un'altra cosa. L'atleta sa che tra la preparazione e il risultato esiste uno iato imponderabile.
Tutti i calciatori, quando entrano in campo, si fanno il segno della croce. Inutile discutere se lo facciano per fede o per scaramanzia, forse molti di loro non sanno nemmeno perché lo fanno. La sostanza di quel gesto è una consapevolezza semplice: «Qualunque cosa io faccia, non dipenderà del tutto da me».
Lo sanno gli attaccanti, che per lunghi periodi non riescono ad andare in gol anche se ce la mettono tutta, e in altri periodi la mettono sempre dentro, di ginocchio, di nuca, magari sbagliando a colpire la palla. Non è una questione di preparazione atletica o psicofisica, ma di abbandono. Bisogna arrivare, cioè, al punto in cui non padroneggi più soltanto la tua disciplina, ma ti ci abbandoni al punto da coincidere con essa.
Questa immedesimazione si chiama fede. Le imprese eroiche di Gino Bartali. L'urlo liberatorio di Valentina Vezzali. I colpi a sensazione dei vari Messi, CR7 o Ibra. C'è sempre, alla base del grande risultato sportivo, un atto di coraggio, una sfida che contempla - in quanto sfida - anche il fallimento, la figuraccia, le moviole spietate, i commenti malevoli sui giornali o al bar. Senza questo aspetto imponderabile, esiste solo il doping, che non è altro che il tentativo di annullare o comunque ridurre artificialmente ogni iato, ogni scarto, e di tenere così tutto sotto controllo.
La fede è un «sì» totale, una certezza senza riserve, che anche l'atleta più forte può non avere. Alì disse di avere sconfitto Foreman, nel leggendario match di Kinshasa del 1974, perché era stato in grado di misurare fin dove si spingeva la fede di quell'uomo dalla forza spaventosa (e che era anche un eccellente pugile). Anche il tifo sportivo ci suggerisce qualcosa di utile. Noi diciamo «io sono dell'Inter», «io sono del Milan» e non «io sono per...». Nel tifo riconosciamo un'appartenenza che altrove ci sfugge sempre di più.
La fede nasce dalla constatazione che il risultato di quello che facciamo è qualcosa di più di noi stessi. Nella vita quotidiana questo limite è più incerto, più difficile da comprendere. Viceversa, nello sport quel limite sta sotto gli occhi sempre. Come gli eroi antichi, l'atleta sa che senza l'aiuto di un dio è difficile scrivere il proprio nome nell'albo della gloria, che è passeggera - come ricorda bene Dante (Pur. XI) - ma che ciò nonostante è data solo agli audaci.
Perché noi siamo fatti per l'immortalità, e questo è vero. Ma per conquistare l'immortalità bisogna prima conquistare la mortalità, che non è poi così a portata di mano.

Per superare il limite bisogna averci sbattuto il naso contro, per andare in paradiso bisogna sapere che c'è l'inferno, per recuperare la vista - come nella parabola evangelica del cieco nato - bisogna prima sapere che siamo ciechi.

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