Berlusconi: "Torniamo uniti"

Nel giorno dei 40 anni de Il Giornale, appello ai moderati: "Non mollerò mai, si voterà presto e batteremo la sinistra"

Oggi Il Giornale compie 40 anni. Onore a Indro Montanelli che l'ha fondato, a Vittorio Feltri che l'ha ereditato e rilanciato, ai direttori che si sono avvicendati e alle centinaia di giornalisti che l'hanno sostenuto con il loro lavoro. Oggi troverete allegato un inserto che ricostruisce la storia di questi quarant'anni così come l'hanno vissuta e raccontata le grandi firme de Il Giornale. Tutto questo non sarebbe stato possibile se Silvio Berlusconi e suo fratello Paolo non avessero creduto fin da subito in questa avventura, finanziandola senza mai batter ciglio e difendendo la sua autonomia in ogni sede. Ci sono stati momenti di grande splendore e altri di sofferenza. Ma mai nulla, nello spirito, è cambiato qui in via Negri.

Presidente Berlusconi, nel giugno del 1974 nasce Il Giornale. Lei che faceva, chi era?
«Avevo 38 anni, ed ero già considerato – mi spiace essere io a dirlo – il “numero uno” dell'edilizia abitativa. Per questo, due anni dopo, il presidente della Repubblica mi avrebbe insignito del titolo di Cavaliere del Lavoro. Sono stato il più giovane imprenditore nella storia ad ottenere questa onorificenza.

Durante una stagione di forte crisi dell'edilizia abitativa avevo avuto il coraggio di realizzare una prima new town a Brugherio, e stavo completando Milano 2. Un progetto urbanistico allora all'avanguardia, che anticipava criteri considerati attualissimi ancor oggi: ampi spazi verdi, percorsi riservati per pedoni e ciclisti, che non interferivano mai con il traffico auto, tutti i servizi a portata di mano. Una realizzazione che anche oggi architetti di tutto il mondo vengono a visitare. Nel frattempo stava nascendo anche Milano 3, con le stesse caratteristiche.

Devo dire che già in quegli anni, da imprenditore e da cittadino, mi rendevo conto del male che la sinistra - ma diciamo pure i comunisti, perché allora c'erano davvero i comunisti - stava facendo all'Italia: da imprenditore, provando sulla mia pelle le difficoltà e gli ostacoli che le amministrazioni locali di sinistra creavano a chi volesse investire e realizzare progetti coraggiosi. Da cittadino vedevo quello che succedeva nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro; la violenza, l'intolleranza, l'estremismo, la nascita del terrorismo».

È troppo chiederle per chi votava in quell'Italia anni Settanta?
«Nelle decisive elezioni del 1948, ancora ragazzo, a dodici anni, affiggevo i manifesti della Democrazia Cristiana, e per questo venni anche aggredito e picchiato da attivisti comunisti. Quando ebbi l'età per votare, scelsi in alcuni casi la Dc, in altri il Partito liberale. Nel 1976, proprio dalle colonne del Giornale, Montanelli lanciò il famoso appello a “votare Dc turandosi il naso” per evitare il rischio del “sorpasso” da parte del Pci che sembrava a un passo dalla vittoria. Anch'io, come tanti italiani, risposi a quell'appello».

La prima volta del nome Silvio Berlusconi su un giornale. Per caso ricorda quando accadde?
«Ho due ricordi, dei quali sono molto fiero. A 16 anni, fu data notizia di un mio successo sportivo: vinsi i cento metri piani all'Arena di Milano con un tempo eccezionale per un dilettante di quell'età. Qualche anno dopo, la mia tesi di laurea in Giurisprudenza, venne premiata come migliore tesi di laurea sulla pubblicità. Conservo ancora incorniciato, ad Arcore, il trafiletto di giornale che riporta la notizia».

Mentre il Giornale muoveva i primi passi, l'Italia era in un profondo mutamento. Tra i tanti personaggi uno spiccò per novità: Bettino Craxi. Sul vostro rapporto c'è una letteratura sterminata. Dovesse riassumerlo?
«Una vera amicizia, assolutamente lontana da qualsiasi convenienza sua e mia. Cioè esattamente il contrario di quello che i suoi e i miei nemici hanno sempre raccontato. Voglio rivelare un episodio: una volta Craxi, venuto a cena a casa mia, mi parlava delle difficoltà economiche del suo partito. Mi parve doveroso – proprio per la stima che avevo di lui – chiedergli se potevo in qualche modo essere d'aiuto. Sapete cosa mi rispose? “Se mi fai ancora una volta una proposta del genere, rompiamo l'amicizia”. Questo era l'uomo che si è cercato di far passare alla storia come emblema della corruzione e del malcostume. Sono orgoglioso di essere stato al suo fianco nei momenti difficili, anche quando gli attivisti del Pds gli gettavano monetine. Craxi commise degli errori, innegabilmente, ma fu uno dei pochi uomini politici ad avere una visione coraggiosa per cambiare l'Italia. Tentò di modernizzare la politica, come io negli stessi anni tentavo di cambiare il mondo della comunicazione. Forse ci intendevamo anche per quello».

Sono anche gli anni di Gianni Agnelli, un rapporto - quello fra di voi - rimasto misterioso. Vi stimavate?
«Abbiamo cominciato a frequentarci a St. Moritz, dove avevamo casa non lontano uno dall'altro. Da allora ci siamo visti spesso, io ospite suo o lui ospite mio. Sono sempre stati incontri molto cordiali. Ero a casa sua a Torino, nel 1993, quando gli parlai dell'idea di fondare Forza Italia. Si dimostrò molto interessato, e ci incontrammo diverse altre volte per approfondire l'idea. Mi incoraggiò in ogni modo. Solo più tardi seppi del suo commento: “Lasciamolo fare: se vince, vinciamo tutti, se perde, perde solo lui”. Non ho mai preso sul serio quella frase: Gianni amava mostrarsi cinico, ma aveva una personalità molto più complessa. Certo, con quelle parole descrisse molto bene l'atteggiamento che avrebbero avuto in tanti nei miei confronti, nei vent'anni successivi, nel mondo dell'impresa e non soltanto».

Torniamo a il Giornale. Come andò l'acquisto?
«I meno giovani fra i lettori del Giornale certamente ricordano il clima politico e culturale di quegli anni. Gli scioperi paralizzavano l'attività industriale, i cortei gettavano nel caos le nostre città, l'eversione rossa - e anche quella nera - compivano stragi orrende, chi osava reagire era messo ai margini, intimidito, spesso aggredito fisicamente, nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro. Il Pci, legato a Mosca, sembrava prossimo a prendere il potere. Occorreva reagire, ma in pochissimi ebbero il coraggio di farlo. I grandi giornali, primo fra tutti il Corriere, si erano omologati al futuro vincitore. In quel contesto, un manipolo di giornalisti coraggiosi lasciò via Solferino per fondare un giornale basato sulle idee liberali, moderate, anti-comuniste. Erano le migliori firme del giornalismo italiano: con Montanelli, Mario Cervi, Cesare Zappulli, Enzo Bettiza, Egidio Sterpa, Egisto Corradi e tanti altri. Era doveroso aiutarli. Ma solo due imprenditori ebbero il coraggio di essere della partita: Achille Boroli ed io. Fra l'altro, io convinsi un amico imprenditore a creare un nuovo stabilimento tipografico dedicato al Giornale: la tipografia in cui veniva stampato all'inizio, all'interno del “Palazzo dei giornali” in piazza Cavour, era iper-sindacalizzata, e spesso il quotidiano di Montanelli non poteva andare in edicola a causa di scioperi politici ai suoi danni. Da quel momento, il Giornale poté uscire regolarmente».

La rottura con Montanelli, davvero voleva “commissariare” il Giornale?
«Chi pensa questo non ha conosciuto Montanelli, o non conosce me. Sarebbe stato sciocco, da parte mia, pensare che un uomo come Montanelli si lasciasse commissariare. D'altronde, chiunque lavori negli organi d'informazione del gruppo che ho fondato sa benissimo che l'editore Berlusconi non si è mai permesso di interferire nella linea politico-editoriale.

Il fatto è che Montanelli, certamente il più grande giornalista italiano, come tutti i grandi, aveva insospettabili debolezze. Una di queste, mi dispiace dirlo, era la vanità e la propensione toscaneggiante ad essere bastian contrario. Intendiamoci, con tutto quello che aveva fatto nella vita, poteva ben permettersi di essere vanitoso. Però questo non sempre lo rendeva sereno nei giudizi».

Dopo lo strappo l'ha più visto o sentito?
«Purtroppo no, e la cosa mi ha molto addolorato. Lo consideravo un maestro, e provavo per lui un affetto sincero. Non mi sarei mai aspettato da lui questo atteggiamento. Però devo dire una cosa: Montanelli, anche negli anni successivi, quando ebbe a criticare la mia posizione politica, riconobbe sempre con onestà che con lui ero stato il migliore degli editori».

Con lei i liberali hanno conquistato la maggioranza in politica, non quella in editoria. Si è dato una risposta a questa sudditanza culturale verso mezzi di comunicazione di sinistra (vale anche: colpa dei giornalisti)?
«La sinistra ha attuato con intelligenza e con coerenza la strategia di Gramsci. I comunisti, secondo questo straordinario pensatore marxista vittima del fascismo, impediti da Stalin dopo il trattato di Yalta a mettere in pratica una rivoluzione armata, sarebbero andati al potere conquistando l'egemonia culturale, e quindi condizionando il modo di pensare della gente. Il Pci investì moltissimo in questo: sistematicamente, infilò i suoi uomini migliori nelle università, nell'editoria, nei giornali, nel cinema e non badò a spese per attirare a sé quelli che già c'erano. Nacque la figura dell'intellettuale organico, che si poneva al servizio dell'ideologia, e in cambio veniva sostenuto in tutti i modi dal partito, nella carriera, nella pubblicità alle sue opere, nei premi letterari e cinematografici. I liberali, che fino al fascismo egemonizzavano la vita culturale del Paese, non seppero e non vollero organizzarsi».

Cosa pensa degli intellettuali liberali?
«L'intellettuale liberale è per definizione un uomo libero, restio a farsi inquadrare, a prendere ordini, a mettersi al servizio di una causa. Proprio il Giornale da quarant'anni è una delle pochissime sedi nelle quali gli intellettuali non legati alla sinistra si possono esprimere liberamente.

La sua domanda però ha anche un'altra risposta, più immediata: i grandi gruppi editoriali hanno capito che è molto più facile proteggere i loro interessi andando d'accordo con la sinistra, e di conseguenza hanno messo a disposizione della sinistra i loro mezzi di comunicazione. Solo io ho fatto una scelta diversa, e secondo alcuni dei miei amici è stato il mio errore fondamentale. In termini di convenienza avevano ragione, se mi fossi allineato con la sinistra vent'anni fa, sarei stato portato in trionfo. Ma sono più orgoglioso di questo consapevole e determinato errore che di tanti altri successi».

A proposito di giornalisti. Da Maurizio Costanzo a Enrico Mentana, a Santoro in Mediaset (e forse oggi anche Floris) non è che lei ha un debole per quelli di sinistra?
«La domanda giusta è un'altra: dopo tutto questo, devo ancora dimostrare di essere un editore liberale?

La verità è che le televisioni del gruppo Mediaset sono televisioni commerciali, che si rivolgono a un pubblico vastissimo, di ogni idea politica. È quindi logico, giusto, coerente con la loro stessa natura, che si rivolgano a tutti e che al loro interno vi siano voci diverse. Non soltanto sarebbe poco liberale, ma sarebbe anche un errore imprenditoriale gravissimo tentare di imporre una linea politica alle reti Mediaset. La tv commerciale è per sua natura e definizione “ecumenica”. E questa è anche la ragione del suo successo».

Quale crede potrà essere il futuro dell'editoria in Italia?
«Certo il destino della carta stampata, e anche quello della televisione generalista, è di trasformarsi profondamente di fronte alle nuove, sconfinate praterie di libera informazione offerte da internet. Non sarà più quello di dare le notizie, ma di interpretarle, analizzarle, contestualizzarle e di proporre una chiave di lettura. Ma proprio per questo il pluralismo diventa ancora più importante. Questa è la ragione per la quale il gruppo che ho fondato continuerà a puntare sull'editoria: abbiamo difeso il pluralismo nella comunicazione televisiva e, attraverso il Giornale, nella carta stampata. Continuare a tutelarlo in futuro, in anni che saranno difficili, sarà una battaglia culturale, doverosa e decisiva. Una battaglia per certi versi analoga a quella – ben distinta, nelle persone, nelle strutture, nelle risorse – che continuerò a combattere con le donne e gli uomini di Forza Italia nel campo della politica».

Veniamo all'oggi. E alla politica.
«Avrei preferito evitarlo, questa era un'intervista sulla splendida storia del Giornale. Ma non voglio sottrarmi.

Ho riflettuto a lungo sugli ultimi risultati elettorali. Un innegabile successo di Renzi - non del Pd, come dimostrano i risultati delle amministrative – che però ha confermato tre cose: che per fortuna il pericolo Grillo, forse proprio grazie al nostro ripetuto grido d'allarme, si sta ridimensionando, che l'area moderata esiste e non si è ridotta nei numeri, nonostante molti nostri elettori abbiano scelto l'astensionismo, e che la parte di gran lunga maggiore dei moderati guarda a noi come punto di riferimento. In queste condizioni, ci sono due cose che abbiamo il dovere di fare: collaborare a vere riforme che rendano finalmente l'Italia governabile, battendoci per quella più importante di tutte, l'elezione del presidente della Repubblica da parte dei cittadini, e prepararci per le prossime elezioni politiche, forse non lontane, nelle quali il confronto vero sarà ancora una volta fra noi del centrodestra e la solita sinistra, questa volta rappresentata dall'immagine più moderna di Matteo Renzi. Per questo stiamo lavorando a tempo pieno per organizzare Forza Italia, per radicarla di più sul territorio, aprirla a volti nuovi, scegliere dirigenti che abbiano il consenso della base. In questo progetto c'è posto per tutti e c'è bisogno di tutti. Io sono certo che nessuno cadrà nella trappola di chi vorrebbe dividerci. Al contrario, comincia oggi un cammino per riportare tutti coloro che vogliono un'Italia più liberale, più efficiente, più solidale, che metta al centro la persona, ad impegnarsi con noi per riuscire finalmente a realizzarla».

In questi ultimi mesi sono emerse tante testimonianze sugli eventi che nel 2011 portarono alla caduta del suo governo. Lei ha sempre parlato di colpo di stato e ora Forza Italia chiede una commissione d'inchiesta. Ma che aveva fatto di tanto male, lei?
«È molto semplice. Il mio ultimo governo è stato stimato, da istituzioni indipendenti, come il miglior governo italiano degli ultimi decenni. Abbiamo affrontato e risolto emergenze come quella dei rifiuti a Napoli, abbiamo salvato l'Alitalia impedendo che la compagnia di bandiera finisse nelle mani di un diretto concorrente come la Francia, abbiamo affrontato la tragedia del terremoto all'Aquila fornendo a tempo di record un tetto stabile e dignitoso a chi era rimasto senza casa, nel discorso di Onna avevo indicato la strada di una vera pacificazione fra gli italiani in nome di valori comuni e condivisi, avevamo portato l'Abruzzo distrutto dal terremoto al centro dell'attenzione mondiale allestendo il G8 all'Aquila, avevamo bloccato l'immigrazione clandestina fermando i mercanti di morte sulla sponda sud nel Mediterraneo. E in conseguenza di tutto questo il presidente del Consiglio era arrivato a un tasso record di consenso del 75,3%».

E come reagì il mondo della sinistra?
«Ciò mi valse i complimenti dei colleghi europei, ma terrorizzò la sinistra. Furono in molti ad esprimere lo stesso timore: “Questo Berlusconi non ce lo togliamo più dai piedi”. E da allora la parola d'ordine fu una sola: “Berlusconi delendum est”. Il resto della storia è noto: nel 2010 fallì il primo tentativo di mandarmi a casa e, dopo un anno orribile di aggressioni al mio prestigio e alla mia immagine, di attacchi finanziari ai titoli del nostro debito pubblico, di ostacoli al nostro agire da parte di nemici esterni ed interni, ebbe successo, nel 2011, il disegno successivo. Come tutti sanno, quando in democrazia si impone un governo che non è stato scelto dai cittadini, la parola può sembrare forte, ma il termine giusto è “colpo di stato”».

Noi del Giornale ci siamo occupati molto di questa vicenda. Altri giornali molto meno. Come mai?
«È facile rispondere: perché le radici di gran parte degli organi di informazione, e dei loro editori, sono saldamente piantate a sinistra. È un contratto di comune interesse. Se ne avvantaggiano loro e anche la sinistra».

In effetti qualche guaio noi e altri mezzi di informazione del gruppo glielo abbiamo procurato. Dicono che il presidente Napolitano e alti magistrati rinfaccino a Lei alcune cose scritte da noi. Bizzarro, ma è vero?
«È innegabile che le cose scritte dal Giornale di solito vengono attribuite a me. Ma tutti coloro che ci lavorano sanno bene che questo non è vero. Io sono grato e affezionato al Giornale, che da 40 anni è un baluardo di libertà. Ma non ho mai voluto influire sulla linea del Giornale, che pure a volte ha scritto e scrive cose che non condividevo e non condivido.

Chi pensa il contrario evidentemente è abituato ad altri editori e ad altri giornali, in cui dare e ricevere ordini è del tutto normale. Applica a noi lo stile e i comportamenti del mondo che frequenta».

Presidente, in questi anni ha mai avuto paura?
«Le pratiche giudiziarie di cui sono stato vittima avrebbero dovuto non mettermi paura, ma terrorizzarmi. Ma ho avuto, fortunatamente, un grande dono da mio padre e da mia madre: mi hanno insegnato il coraggio e la determinazione a non cedere mai, quando so di essere nel giusto.

E poi mi conforta l'affetto costante di milioni di italiani. Lo avverto ogni volta che mi muovo, che vado da qualche parte: l'abbraccio della gente è affettuosissimo, spesso si blocca addirittura il traffico perché in tanti vogliono vedermi, salutarmi, esprimermi solidarietà. Tanto è vero che limito i miei spostamenti in luoghi pubblici anche per non recare troppo intralcio. Non posso avere paura, anche per rispetto a tutti questi italiani».

Lascerà un giorno la politica?
«No. Non fino a quando l'Italia non sarà quel grande Paese liberale che abbiamo sognato.

E d'altronde, purtroppo, anche la politica, quella di una certa sinistra, non lascerà mai me. Non rinunceranno a provare a distruggermi».

Accontentiamo Travaglio: ci dia un ordine.
«Vi ordino di non accettare mai ordini da nessuno».

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