Il processo al direttore di questo giornale non ha più alcunché di simbolico. I simboli sono opinabili, i corpi prigionieri e le restrizioni dei diritti non sono questioni aperte, da interpretare con la dovuta ponderazione, sono questioni di principio. Si possono pensare mille cose diverse sulla diffamazione, sul dolo, sulla libertà d’opinione, sulla nostra corporazione di gazzettieri e le sue responsabilità, glorie, miserie e guarentigie. Ma qui, in dirittura d’arrivo, il problema è uno solo. La galera per un articolo. Un uomo, un professionista che lavora nell’informazione, un cittadino perde il diritto alla libertà personale per essersi espresso pubblicamente su una questione oggettiva che coinvolge un altro (in questo caso un magistrato). Ecco la trasformazione di una posizione di offesa e di un ricercato risarcimento ( il fatto che poi l’articolo processato non sia stato scritto dal candidato al carcere è un elemento grottesco in più, ma non è dirimente) in una violenza della legge, una legge sbagliata ma una legge, che ha per conseguenza un atto violento su una persona e su un principio. Un maestro del giornalismo italiano e della cultura cinica e conservatrice di un’epoca passata, Leo Longanesi, diceva che ad appoggiarsi sui principi si fa un errore, perché si piegano. Alessandro Sallusti fa la scelta opposta al profeta di Bagnacavallo, e tira in ballo una questione di stile e di coerenza perché così è fatto il suo carattere. Va rispettato. Va sostenuto.
Bisogna chiedere con voce chiara e forte quello che lui non può più chiedere, non vuole chiedere: una soluzione di buonsenso, ma autorevole e non fondata su mezzucci, che preservi la sua libertà personale e dunque tuteli il mestiere di informare contro l’evidenza dell’intimidazione. In questi casi non vedo altro che un esercizio libero e sovrano del potere di grazia, l’altra faccia della giustizia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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