Pavia è una città segreta e silenziosa. Basta attraversare il Ticino sul ponte coperto, per intenderlo. Una galleria sospesa sull'acqua che si attraversa in perfetta solitudine, in un rapporto prestabilito d'incomunicabilità con chiunque altro s'incroci sul ponte, attraversato da una nebbia sottile.
Sul ponte di Pavia, dalla realtà si passa a una dimensione metafisica. Difficile sfuggire alla suggestione che in uno dei suoi più importanti monumenti, la Chiesa di San Pietro in Ciel d'Oro, a fianco del trascurato re longobardo Liutprando, Rex Langobardorum («litterarum quidem ignarus»), Rex totius Italiae, dal 712 al 744, sovrano illuminato e ignorante, come lo descrive Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum, sono sepolti Severino Boezio e Sant'Agostino.
È lo storico Paolo Diacono a farcene capire la lungimiranza e la magnanimità: «Fu uomo di molta saggezza, accorto nel consiglio, di grande pietà e amante della pace, eppur fortissimo in guerra, clemente verso i colpevoli, casto, virtuoso, instancabile nella preghiera, largo nell'elemosina, ignaro sì di lettere, ma degno di essere paragonato ai filosofi, padre della Nazione, legislatore innovativo». A lui si devono la protezione e le garanzie per la chiesa cattolica, assicurando l'inviolabilità alle chiese. E ancora tali appaiono le basiliche di Pavia. Integre. Protettive. Liutprando si voleva re cattolico e chiamava i longobardi popolo cattolico, per questo, a Pavia fondò il monastero di San Pietro in Ciel d'Oro, e lì volle comporre le reliquie di Sant'Agostino. Così, in un solo luogo, si concentra un culto della ragione prima che della fede, nella memoria viva del pensiero di Agostino. Non gli poteva essere più consono e più solitario compagno di Severino Boezio, la cui anima, prima che il corpo sta, poco lontano, nella cripta della stessa Basilica. Dante lo pone in Paradiso, nel centro del Sole, tra gli spiriti sapienti. L'anima di Boezio sta nel cielo del sole e, omologamente, il suo corpo sta in Ciel d'Oro nella Chiesa di San Pietro.
Come San Pietro in Ciel d'Oro, altre chiese romaniche hanno purissime forme. Che non si sono conservate nelle coeve architetture di altre città padane: a Modena, a Parma, a Ferrara. Fra tutte San Michele, costruita in un'arenaria dolce che resiste nella incontaminata struttura, con le piccole finestre sulla facciata senza il rosone vorace di luce, pur mostrando la pelle malata. Ancora le chiese di San Teodoro e San Lanfranco si aggiungono all'itinerario romanico di Pavia. Ma anche nel Rinascimento Pavia è capitale. Proprio nel convento di San Lanfranco, nel chiostro e nell'arca del Santo, lavora Giovanni Antonio Amadeo, il più importante architetto e scultore del Rinascimento lombardo che abbiamo trovato nella Cappella Colleoni di Bergamo e che ritroveremo nella Certosa di Pavia. Temperamento lirico, nei bassorilievi dell'arca, Amadeo racconta la vita del santo come in un sogno, edulcorando ogni particolare realistico per naturale estraneità a una visione drammatica.
Lo ritroviamo in città nell'architettura della Chiesa di Santa Maria Canepanuova: l'alto tiburio accentua la pianta centrale e inonda lo spazio di luce, in continuità con la visione di Bramante espressa in Santa Maria delle Grazie a Milano. A Santa Maria Canepanuova chiedono una sosta anche i dipinti teatrali e melodrammatici di Alessandro Tiarini, pittore bolognese di forte chiaroscuro, e fino a qualche anno fa, le opere padre di Costantino, un artista rifugiato sotto i tetti della soffitta della Chiesa, a disegnare, in un astratto delirio, le vetrate per edifici ecclesiastici. In una convinta fede che egli voleva conciliare con la parola d'ordine delle avanguardie. Dogma con dogma: «Il faut être absolument moderne». Fra libri, carte, disegni, cartoni trovavi questo frate innamorato di Dio e di Mondrian, devoto alla Madonna e a Sonia Delaunay, pronto a raccontarti la sintesi di misticismo e astrazione. Dialoghi perduti, nelle nebbie di Pavia. D'altra parte questa bella città universitaria, lenta e addormentata solo all'apparenza, è ben sveglia nello stimolo dell'intelligenza attraverso la tradizione della sua università con la competizione degli istituti: l'Almo Collegio Borromeo, il Collegio Ghislieri, il Collegio Cairoli. A Pavia una grande studiosa come Maria Corti ha fatto scuola e ha raccolto gli archivi dei più notevoli scrittori del Novecento.
Intelligenza e meditazione hanno reso l'Università di Pavia degna del pensiero verticale di Agostino e Severino Boezio per l'acutezza degli studi e della ricerca. Come Ferrara e Mantova anche Pavia è memorabile per il suo castello, il castello Malaspina, variamente utilizzato ma fortunatamente non restaurato da un architetto alla moda. Il castello ospita un museo archeologico con importanti sezioni longobarde e medievali, in uno dei più riusciti e semplici allestimenti del secondo Dopoguerra, anche se men celebrato di quelli di Carlo Scarpa al museo di Castelvecchio a Verona e in Palazzo Abatellis a Palermo, e dei Bbpr nel Castello Sforzesco di Milano.
A Pavia agisce un architetto dimenticato e sensibilissimo: Bruno Ravasi. Che non si concede gesti distintivi, ma semplicemente accompagna con i materiali e con le tinte su basamenti di materiale povero, con uso misurato del cocciopesto, reperti di pietra, di marmo o di terracotta, portali, bassorilievi, sculture, capitelli, che non hanno più l'aspetto di oggetti archeologici esposti come feriti in un ospedale con chirurgica evidenza, ma sembrano ritrovare un'anima se non una funzione, accompagnati dalla pietas di chi ce li ripropone con infinita delicatezza. Tanto sobrio e misurato è questo intervento che non ha fatto né storia né scuola, ma ci chiama affettuosamente quando, entrati nella vasta corte del castello, ci aggiriamo per le sale di questo museo domestico: una lezione di umiltà e misura che gli architetti hanno dimenticato. Al piano superiore è accolta la pinacoteca Malaspina dove ci attendono dipinti di Giovanni Bellini, di Gentile da Fabbriano, del Cerano e perfino di Antonello.
La raccolta merita una visita per uno dei capolavori della pittura del Rinascimento in Lombardia, la pala Bottigella di Vincenzo Foppa. Compagna e sorella delle corrispondenti pale di Andrea Mantegna, di Giovanni Bellini e dei maestri ferraresi, la pala del Foppa è la prima interpretazione notturna della Sacra conversazione. La volta sotto la quale stanno i santi in preghiera davanti alla madonna con il bambino, accompagnando la convinta devozione di Giovanni Matteo Bottigella e della moglie Bianca Visconti, è stellata; ancor più splende perché la partitura architettonica, in prospettiva, è policroma e dorata.
Il fondo blu scuro è una intuizione senza precedenti che favorisce l'intimità del gruppo raccolto nel consueto rito. Misticismo, gravità, compostezza caratterizzano l'attitudine dei santi in preghiera, in una luce irreale nonostante le aperture laterali che mostrano il cielo nuvoloso.
Ma la presenza dei due committenti, con la forza della verità dei loro volti, trasferisce la dimensione sacra in una inedita realtà, in un hic et nunc che non finisce di essere presente per un'attitudine irriducibilmente realistica. Con questo capolavoro Foppa entra in dialogo diretto con il Mantegna della Camera degli Sposi.(3.Continua)
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