Feltri prima di tutti e dopo di lui Guzzanti e Cicchitto centrano una questione ineludibile per rilanciare il centrodestra, partendo da un'autocritica severa del come e del perché il centrodestra sia stato incapace in questi anni di una proposta seria e continuativa in ambito culturale.
La mia esperienza di ministro dell'Istruzione Università e Ricerca, un settore strategico per il futuro del Paese, mi ha fatto toccare con mano la pervasività della sinistra nelle casematte di quella macchina di trasmissione del sapere che si chiama scuola. Ed anche la sua capacità di mobilitazione contro chiunque osi innovare e riformare un sistema ossificato e conservatore: perché - come l'esperienza del welfare ha insegnato - si tratta di una organizzazione più preoccupata dei suoi funzionari piuttosto che dei suoi protagonisti, gli studenti. Un sistema nemico della competizione, che è il sale della conoscenza e dello sviluppo, e amico di un solidarismo ideologico, egualitario, capace solo di solidificare la disuguaglianza sociale.
I figli dei ricchi proseguono infatti all'estero il percorso finale dell'educazione di eccellenza: nelle società dove la parola «merito» è di casa e rappresenta davvero un «ascensore sociale», a differenza di qui dove è vietato pronunciarla.
Un modello, il nostro, ancora permeato di quello spirito del '68 e del suo paradosso per cui mentre, da un lato, chiamava infatti «studenti ed operai ad unirsi nella lotta», contribuiva, dall'altro, a distruggere le occasioni di continuità tra scuola e lavoro sancendo il primato di una dimensione solo intellettuale dell'esistenza. E preparava così le difficoltà e la sconfitta del sistema-Italia nella competizione con la Germania, ad esempio, e l'affievolirsi della virtuosa compatibilità-continuità della catena scuola-lavoro. Accanto alla mobilitazione, la delegittimazione e la demolizione dell'avversario che ho ben conosciuto soprattutto nel confronto con un mondo del tutto ignaro di una cultura imprenditoriale e manageriale (che, come molti sanno, è all'origine dell'eccellenza delle Università americane). E che ha spinto la sinistra, spesso anche provocatoriamente, a cercare nel ministro l'immagine e la formazione di un professore tradizionale per battere, in questo modo, la fatica di dover adottare i moduli di un'organizzazione capace di meno spreco e soprattutto di competizione internazionale.
Nei tre anni di governo ho toccato con mano non solo il fallimento delle proposte della sinistra, l'ignoranza di strumenti culturali utili a fronteggiare la riconversione di un mondo che per anni aveva pervicacemente rinunciato a premiare la qualità, a motivare e incentivare la competizione tra dirigenti, professori e scuole, ma anche la delusione di molti uomini liberi, o un tempo di sinistra, oggi consapevoli che la sinistra è incapace di pensare riforme e di interpretare la modernità. La loro delusione però non è meno forte nei confronti dell'assenza e del vuoto - almeno percepito - del centrodestra visto spesso come un mondo distratto, privo di interesse e sensibilità verso cultura, scuola, università e ricerca. Dobbiamo reagire! Il nostro impegno deve essere visibile, continuativo e dobbiamo imparare a interagire con questi mondi dei quali dobbiamo sempre di più diventare interlocutori assidui.
Dobbiamo dare respiro e concretezza a quanto abbiamo potuto soltanto avviare nell'esperienza di governo: perché la strada avviata è quella giusta.
Cicchitto ricorda Colletti, Melograni, Rebuffa, don Gianni Baget Bozzo. E vorrei aggiungere Martino, Urbani e le molte iniziative editoriali che fiorirono negli anni della rivoluzione liberale e della diffusione del pensiero liberale. Vorrei ricordare il ruolo del Foglio e di un campione fantasioso e coraggioso della ricerca culturale e dell'impegno politico come Giuliano Ferrara. Credo inoltre sia doveroso riconoscere l'esperienza positiva della scuola di formazione politica di Gubbio fortemente voluta da Sandro Bondi. Così come l'esperienza di club e Fondazioni che, ieri come oggi, continuano a fare in modo che il filo della cultura e della sua ricerca non si spezzi. Dobbiamo fare di più, molto di più e dare centralità alla cultura che deve diventare il software e il vero motore di un Pdl a cui non manca certo il solido hardware degli elettori e della classe dirigente; ma che deve affinare il confronto e l'elaborazione di un pensiero politico capace di parlare a tutti i settori della società italiana. Un contributo importante, ne sono certa, verrà da Daniele Capezzone, neo-coordinatore di dipartimenti la cui guida con lui cesserà, mi auguro, di essere percepita come incarico consolatorio in cui sistemare gli scontenti; per diventare al contrario il luogo della costruzione di una rinnovata cultura politica. Bene ha fatto Alfano a promuovere incontri e manifestazioni, e a tenere vivo il dialogo con i corpi intermedi, ma in tempo di crisi più che mai il partito deve prestare attenzione al talento, alle motivazioni di quei molti, soprattutto tra i giovani e le loro energie, che possono dare vita al cambio di passo che serve all'Italia. L'irrompere prepotente dei nuovi media e di nuove forme del comunicare obbligano le culture politiche ad una fase di serio ripensamento. Si tratta di sviluppare nuove forme di partecipazione politica evitando i rischi del giacobinismo strisciante (quello della trasparenza intesa come forma di controllo autoritario pubblico) e contribuendo a costruire un confronto capace di armare la cultura del centrodestra ed il nostro Paese di fronte alla crisi del nostro Paese. Che è crisi strutturale e che mette in discussione lo scambio politico costruito dalle culture del compromesso storico che escono definitivamente distrutte dal confronto con le nuove economie. La rete non è solo Grillo e l'impegno di Antonio Palmieri ci dovrebbe spingere a proseguire sulla strada da lui tracciata evitando semmai di disperderci in iniziative singole e facendo quindi sistema. Senza dimenticare la comunicazione: siamo stati accusati di essere con Berlusconi i padroni della tv. Mentre basta affacciarsi su di un qualsiasi talk show per capire come stanno - e ben diversamente! - le cose. Quasi che l'interpretazione del ruolo ed il talento giornalistico appartengano al dna del pensiero politicamente corretto. Il quale poi contribuisce a costruire un orizzonte di pensiero del tutto ideologico, fondato sull'invidia sociale e sulla demolizione morale dell'avversario politico. Mentre dobbiamo guardare alla Rai come ad un patrimonio di pluralismo e professionalità da valorizzare e in molti casi da premiare.
Espressivo certo di quella funzione di cane da guardia dell'opinione pubblica che riconosciamo ai media, ma rispettoso delle libertà e dell'integrità delle persone. Una società aperta è amica della critica ma nemica dei pregiudizi ideologici e il servizio pubblico non è servizio e militanza di partito come le carriere parlamentari italiane ed europee hanno purtroppo fin qui rivelato. La differenza tra noi e la sinistra (quella tradizionale e conservatrice che ha finito per prevalere in Italia) dovrebbe essere - per concludere - la nostra capacità di premiare i migliori! La nostra disponibilità ad affermare una società del merito che valorizzi la parte viva e vivace di una società civile animata e armata da uno spirito positivo e costruttivo.
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