Davanti a me un ragazzo che corre urlando al telefonino: «Hanno sparato a una persona»

Davanti a me un ragazzo che corre urlando al telefonino: «Hanno sparato a una persona»

La solita mattina. La solita stradina, anzi, con un po’ di sole finalmente. Rallento alla solita mezza curva per non trovarmi di fronte alla solita macchina in senso opposto. Invece mi trovo un ragazzo che mi corre incontro, con l’orecchio al telefonino. Mi trovo di fronte il ritorno del terrorismo. Fossi passato un paio di minuti prima, ci avrei sbattuto contro.
Trenta metri davanti a me c’è un uomo a terra, seduto, appoggiato con la schiena contro la ruota di un’auto. Due giovani sono chinati accanto a lui: «Dai, dai», gli gridano. È come se volessero tenerlo sveglio. «Papà, dai», ripetono e gli tengono la testa sollevata. Penso a un malore, posteggio per evitare di passargli a pochi centimetri e scendo. Due o tre persone stanno già parlando ai cellulari, quindi anche il 118 è stato avvertito. Già l’idea che i figli siano testimoni della tragedia che coinvolge il loro padre mi fa abbassare gli occhi. Che siano loro a tentare un primo, disperato soccorso è qualcosa che stringe il cuore.
Mi avvicino e la «solita» mattina mi rispedisce indietro nel tempo. Chiedo cosa sia successo e della risposta capisco solo una parola: «... sparato». Non so perché, ma le prime immagini che mi vengono in mente sono i suicidi disperati di questi giorni. Quell’uomo a terra, ben vestito, con la giacca e la borsa da lavoro accanto a sé, dà l’idea di un imprenditore, di un manager. «No, no. Gli hanno sparato - mi corregge subito Salvatore Sannino, che fa il custode nel condominio di fronte -. Hanno detto che è un avvocato». Ancora un piccolo errore prima di capire in fondo la verità, ma tutto è subito più chiaro. Più tragico. Che la mala non c’entri nulla, che non si sia trattato di una rapina è evidente.
Finalmente arriva l’ambulanza con l’auto medica, guidata nella stretta via Montello dalle indicazioni dei residenti. Poi arriva la prima auto dei carabinieri. C’è qualcosa che non mi torna. Perché sembrano tutti troppo tranquilli. Mi rincuora vedere quell’uomo a terra che riprende conoscenza dopo essere svenuto, i medici che gli parlano, lo aiutano a sdraiarsi sull’asfalto. Tra le tute arancioni dei volontari della pubblica assistenza, scorgo la gamba destra della vittima, con i pantaloni tagliati fin sopra il ginocchio. Sotto c’è un piccolo segno rosso scuro, il foro d’uscita del proiettile che lo ha colpito. Le parole del dottore al ferito sono le più importanti: «Stia tranquillo, non è entrato». Si riferisce al colpo che ha solo scheggiato la tibia, ma che soprattutto non ha reciso alcuna arteria. Questione di millimetri, diranno in ospedale, ma lì, sull’asfalto nero sporcato dal sangue, quella diagnosi su due piedi è già tantissimo. È una carezza sul viso della moglie di Roberto Adinolfi, corsa in strada accanto ai figli e al marito.
Una famiglia che reagisce in maniera incredibilmente composta. Non una scena di disperazione, non una lacrima. Non un gesto che non sia utile all’unico obiettivo: fare in modo che tutto finisca per il meglio. Adinolfi non dice una parola, né si lascia scappare un urlo di dolore neppure quando lo adagiano sulla barella, sotto gli occhi dei figli che spiegano tutto quello che possono ai carabinieri che nel frattempo sono arrivati in massa sul posto. L’ambulanza non parte subito verso l’ospedale San Martino, ma il ferito non è in pericolo di vita. E possono iniziare le indagini. Dal quel bossolo rimasto lì, accanto ad Adinolfi, davanti alla ruota di uno scooter posteggiato. Un bossolo che «racconta» tanto dell’attentato e indica una pista precisa.

Una pista confermata dai racconti dei testimoni, primo tra tutti i figlio della vittima, che era insieme al padre ieri mattina e che ha visto quei due uomini col casco integrali che li aspettavano. Stesse parole dai testimoni ascoltati dai carabinieri. Stesse ricostruzioni per raccontare una stradina, una città, che non è più la stessa. Non sarà più la solita.

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