Una quindicina d'anni fa, nonostante fosse già pensionato da un pezzo, Lino Faccincani figurava al nono posto nella lista dei primi 10 contribuenti d'Italia, con un reddito (in lire) di 23.427.778.000, preceduto solo da Giorgio Armani, Cesare Romiti, Pasquale Natuzzi e Marco Tronchetti Provera. Dietro di lui, Santo Versace (12°), Ennio Doris (13°), Silvio Berlusconi (17°), Roberto Baggio (39°). Per rintracciare Giovanni Agnelli, con i suoi 6.554.483.000 di entrate, bisognava retrocedere fino al 69° posto. «Scoprire che ero più ricco del re d'Italia, il quale risultava guadagnare il 72 per cento meno di me, confesso che mi diede la vertigine. Ne conclusi che qualcosa in questo Paese non andava. Qualche peccato veniale sulla coscienza ce l'ho anch'io, intendiamoci, ma solo fino al 1978 e solo per colpa del mio commercialista, che mi rimproverava d'essere troppo generoso con lo Stato. Da allora ho messo tutto nelle mani di Coopers & Lybrand, poi fusasi con Price Waterhouse. Mica per altro: di notte voglio dormire tranquillo le mie otto ore».
Non che oggi Faccincani, 83 anni, presidente di Estate, società unipersonale di gestione del patrimonio immobiliare, se la passi male: continua a denunciare al fisco 6 milioni di euro l'anno, cioè oltre 16.000 euro al giorno. Si capisce perché sua madre da bambino lo chiamasse Chicco d'oro e gli pronosticasse un radioso avvenire. Ma quello che rende l'arzillo nababbo assolutamente unico nel panorama nazionale è l'hobby che s'è scelto: restituire alle istituzioni ciò che ricevette durante l'infanzia. Già, perché quella mamma che tanto lo amava morì ad appena 37 anni, quando lui ne aveva 9, a causa delle complicazioni sopraggiunte dopo la nona gravidanza, e da allora per il quartogenito la vita fu solo un susseguirsi di dolori e privazioni, all'inizio all'Opai di Olgiate Olona, il primo preventorio antitubercolare infantile d'Italia, e poi per le strade di Milano come carrettiere.
Era fatale, dato il suo passato, che le attenzioni di Faccincani andassero alle vie della città dove approdò nel 1936 dalla natia Roverbella (Mantova). E oggi ha deciso di adottarle. Ha cominciato da corso Buenos Aires, che vide a 6 anni dal tram su cui la madre lo aveva caricato per fargli raggiungere, tutto solo, la scuola elementare nel convitto del Parco Trotter, in via Padova. «Ne rimasi affascinato. Le vetrine dell'emporio di alimentari Guardini & Faccincani mi sembrarono un acconto di paradiso». Con il Consorzio Buenos Aires nato quattro mesi fa, di cui è fondatore e presidente, Faccincani si ripromette di trasformare questi 1.485 metri d'asfalto, con le sue 658 vetrine, i suoi 311 locatori e i suoi 143 brand, nella via dello shopping più sicura al mondo. Per riuscirci, ha già fatto una donazione di 500.000 euro nel 2013 e prevede di aggiungerne un'altra d'importo addirittura superiore, «fino a 700.000 euro se necessario», nel 2014. In totale 1,2 milioni per un sofisticato sistema di telecamere dotate di potentissimi zoom (15 già posizionate, 8 in fase d'installazione, 30 a conclusione del progetto), che ruotano di 360 gradi e restituiscono immagini ad alta definizione, con un monitoraggio 24 ore su 24 di corso Buenos Aires e vie laterali. Dopodiché intende ripetere l'esperimento anche in corso Vercelli.
Poiché nessuno arriva a guadagnare 684 euro l'ora se non ha un po' di sale in zucca, diciamo che Faccincani ha escogitato il modo di unire l'utile (i suoi affari) al dilettevole (la beneficenza). Si dà infatti il caso che nelle due strade citate sia ubicato un bel po' del patrimonio immobiliare - 9.000 metri quadrati fra Roma e Milano, affittati a grandi griffe e imprese commerciali - da cui egli ricava la maggior parte dei cespiti all'origine delle proprie fortune. In corso Buenos Aires, in particolare, possiede 12 grandi superfici, come il negozio all'angolo con via Boscovich, acquistato di recente per 21 milioni di euro, che gli rende la bellezza di 1,1 milioni l'anno di locazione. Però il mecenate s'è già offerto di collocare un identico impianto, sempre a sue spese, anche ad Arenzano, nella zona residenziale privata di 92 ettari, con tanto di posto di blocco all'ingresso, che ospita, fra molti piccoli condomini, la villa a picco sul Mar Ligure dove vive per la maggior parte dell'anno, di gran lunga preferita alla casa milanese di piazza Santo Stefano. Anche in Riviera godrà di un vantaggio indiretto: la maggior protezione per le opere d'arte custodite in quello che appare più un museo domestico che un buen retiro.
Faccincani ha già predisposto un programma filantropico che dovrà perpetuarsi nel tempo, anche dopo la sua morte. Se ne incaricherà la Fondazione Elena Fiore, intitolata alla madre, cui sarà conferito il suo intero patrimonio dopo la suddivisione dell'eredità che spetta ai figli Paola, Elena e Marco e alla moglie Antonella. «A spanne, 7 milioni di euro, che per la metà dovranno andare a enti che assistono fino ai 14 anni i minori abbandonati, come i Martinitt e le Stelline, e per l'altra metà ad acquistare titoli di Stato a tripla A, in modo che la dotazione di partenza si conservi nel tempo».
Come ha fatto ad accumulare così tanti quattrini?
«È una storia lunga: quella della mia vita. Ci porterebbe via del tempo».
Sono venuto fin qui apposta.
«Comincia in Veneto. Mio padre Adelino era un contadino di Valeggio sul Mincio. Mio nonno Giovanni Bizzaro, ex sindaco di Asolo, era un latifondista benestante trasferitosi nel Veronese. Aveva cinque figlie: Elena, mia madre, bellissima e diplomata, sposò papà contro il volere dei genitori. Il nonno resistette per altri quattro anni alla grande crisi del 1929. Poi fu la rovina. Nel 1936 la mia famiglia andò a vivere in una cascina di via Quaranta, a Milano, con il cesso e l'acqua corrente in cortile. Quando ci assegnarono un alloggio popolare, al numero 22 di via Inama, credevo di sognare: aveva il gabinetto in casa».
E poi?
«L'ultimo nato, Giorgio, fu dato da allevare alla zia Assunta. Tre mie sorelle finirono in istituto. Io e Norma, che era la sesta, fummo mandati nel collegio di Olgiate Olona. Ricordo ancora lo sguardo disperato di mia madre malata nel congedarci. Non ebbe nemmeno la forza di alzare la testa dal guanciale. Io mi chinai a baciarle la fronte. Non l'avrei rivista mai più. Per due lunghi anni nessuno della famiglia venne a trovarci. Finché mi risolsi a spedire una cartolina alla zia: scrissi solo Assunta - Castiglione delle Stiviere, perché non sapevo altro di lei. Incredibilmente arrivò a destinazione. E così, dalla sua lettera di risposta, seppi che mia mamma era morta».
Ma suo padre dove s'era cacciato?
«Venne a trovarmi, con una nuova compagna, solo dopo questo scambio epistolare. Decisi di restare a Olgiate Olona fino allo scadere dei 14 anni, lavorando nelle cucine per mantenermi. Potei completare solo la quinta elementare. Peccato, perché avevo vinto il premio di merito, primo su 500 allievi. Studiavo persino durante la ricreazione, con la maestra Luisa Bonomi».
Compiuti i 14 anni, che accadde?
«Il giorno stesso fui estromesso dall'istituto. Mi presentai a Milano da mio padre, che mi mise a fare il manovale. Dovevamo rimuovere le macerie della guerra. Dopo tre mesi, mi spedì con cavallo e carretto in via Durini a caricare. È stato il mio mestiere fino ai 17 anni. Dormivo nella stalla. Con i pochi risparmi mi abbonai a Selezione dal Reader's Digest, il mio unico passatempo».
E dai 17 anni in poi che fece?
«Il manovale dai fratelli Panigalli: recupero di materiali ferrosi e residuati bellici. A 19 anni piazzista di macchine per cucire della Sodimac, ditta svizzera. Dopo tre mesi ero il miglior venditore, dopo altri cinque ispettore. Aprii le sedi di Padova e di Roma. A 28 anni ero responsabile di tutte le filiali italiane, molto ben pagato. Ma con il boom economico cominciò il declino dei vestiti fatti in casa. Così, dopo una breve esperienza alla Helene Curtis, mi buttai su un altro ramo: il nylon».
È con quello che ha fatto i soldi?
«Esatto. Prima come dirigente della Rhodiatoce. Poi come imprenditore. La Rhône-Poulenc mi diede l'esclusiva del nylon per calzetteria e maglieria. Dopo sette anni di anticamera, la Du Pont de Nemours americana mi concesse la privativa per l'Italia dell'elastomero Lycra».
Il filato sintetico con cui si fabbricano calze, collant e costumi da bagno.
«Noto che è preparato sull'argomento. Dall'Omsa... che gambe!, reclamizzato dalle modelle Kessler, a Bloch, Si Si, Golden Lady, erano tutti miei clienti».
Ha fatto camminare il mondo.
«Questo mi ha consentito di allenare l'occhio sui punti commerciali più interessanti dentro le città. Per esempio, a Roma, in via Tuscolana e via Tiburtina, prenotavo gli immobili allo sterro del cantiere, versando un acconto in contanti, e poi accendevo un mutuo. In pratica, con poco compravo tanto».
Tranne che in corso Buenos Aires, dove i negozi erano già costruiti.
«Ho pensato: New York ha la Quinta strada, Parigi gli Champs-Élysées, Londra la Bond street. E noi? Ho commissionato un sondaggio alla Larry Smith. In sette giorni, 3.000 interviste ai passanti. E 3.000 telefonate ai residenti. M'è costato 50.000 euro, ma ne è valsa la pena».
Che cos'ha scoperto?
«Che una persona su 5 fra quelle interpellate manifestava paura per problemi di sicurezza: borseggi, scippi, contraffazione, vandalismo, accattonaggio. Il Comune s'è offerto di piazzare 6 telecamere. Eh no, mi sono detto, qui dobbiamo avere il meglio del meglio. Voglio che il sindaco di Parigi, quando verrà in visita a Milano, si stupisca. Così ho comprato di tasca mia il più avanzato sistema di videosorveglianza che esista al mondo, di derivazione militare. Solo il software per gestirlo mi costa una fortuna».
Ne valeva la pena?
«Corso Buenos Aires è la via di Milano con il maggior numero di visitatori. Già questo, da un punto di vista civico, basta. Ma quando sul Sole 24 Ore ho letto che in Europa i centri commerciali erodono ogni anno il 3 per cento del fatturato dei negozi tradizionali, con conseguente depressione del loro valore di mercato e dei canoni di affitto, ho cominciato a preoccuparmi per il futuro degli immobili che dovranno finanziare le opere di bene quando non ci sarò più».
I suoi cari che cosa dicono di tanta prodigalità?
«Mia moglie è felice. L'ultimogenito condivide. Le due figlie più grandi non si sono espresse».
Grazie alle sue telecamere, la polizia cattura un borseggiatore, che prima di sera è già libero. A che servono?
«La qualità della vita sarebbe migliore se negli ultimi 20-30 anni non fosse andato a ramengo il senso della famiglia e dell'onestà. Cambiare le cose in meglio non è facile. Ma bisogna provarci. È quello che cerco di fare nel mio piccolo».
Le questure non hanno i soldi per la benzina delle volanti e la carta per le fotocopiatrici, lo sa?
«Sì, e nel 2014 voglio fare ancora di più».
La «Milan col coeur in man» è viva?
«Certo. Ma essere generosi non è facile. Ci sono in giro troppi profittatori che hanno fatto della filantropia il loro mestiere. Usano le offerte per darsi uno stipendio a fine mese. Io cerco di difendermi intervenendo in prima persona».
In che modo?
«Mi scoccia parlarne».
Faccia uno sforzo.
«Per esempio ho fatto una donazione al brigadiere dei carabinieri Giuseppe Giangrande, ferito da un attentatore davanti a Palazzo Chigi, la cui figlia, Martina, è stata costretta a lasciare il lavoro per assisterlo. Sto cercando di dare una mano alla vedova e ai bimbi dell'egiziano di 31 anni investito e ucciso a dicembre in corso Europa».
Come definirebbe il suo tenore di vita?
«Senta, non ho la colf. Né qui ad Arenzano né a Milano».
Qualche lusso se lo sarà pur concesso.
«Soltanto opere d'arte e antiquariato, che sono forme d'investimento. Quella Madonna con Bambino della scuola di Filippo Lippi che vede davanti a sé, per esempio. Oppure il tavolo su cui s'è appoggiato per scrivere, proveniente dall'Opificio delle pietre dure, anno 1720: gli intarsi di marmo raffigurano la resa delle armi dei musulmani e la sottomissione al potere pontificio. Sono venuti due ufficiali della Guardia di finanza da Roma a controllarli. Quando gli ho esibito le fatture di acquisto, mi parevano sorpresi».
Se fosse il ministro dell'Interno, che cosa farebbe per rendere l'Italia più sicura?
«Non credo che all'etica possa provvedere il Viminale».
(699. Continua)
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