La follia di un Paese che regala bebè ai vincitori del quiz

Boom di ascolti e di critiche per lo show che mette in palio bebè abbandonati. L'accusa: "Non sono trofei". La replica: "Meglio così che a fare i kamikaze"

La follia di un Paese che regala bebè  ai vincitori del quiz

Avviene in Pakistan, Paese avvezzo a terrorismo e a violenza, ma questa storia è ancora peggiore dei soliti morti, perché ci racconta come il genere umano, nella fame e nell'ignoranza, possa toccare il fondo considerando carne da teleschermo le sue stesse creature, e prima ancora di questo, come possa letteralmente buttarle nella spazzatura. È la storia di una risposta idiota e disgustosa a una condizione disperata. In Pakistan un famoso anchorman di nome Aamir Liaquat Hussain, buon musulmano religioso e anche sex symbol, gestisce uno show tipo OK il prezzo è giusto. In questi giorni di Ramadan va in onda sette ore al giorno, e il premio messo in palio è un neonato.
Un premio speciale per giorni speciali. Vinci, e vai a casa con un pesciolino rosso, pardon, un bambino piccolo. Hussain spiega che si tratta comunque di «bimbi abbandonati che sono condannati a crescere per strada per poi essere magari arruolati dai terroristi e concludere la loro esistenza come attentatori kamikaze. Noi offriamo loro un'alternativa, che c'è di sbagliato?». I neonati aggiunge, sono spesso ritrovati fra la spazzatura già morsicati dai cani. Tutto vero. Nel mondo i bambini per strada sono 250 milioni, il 61 per cento in Asia, il 32 in Africa. Finiscono soldati a sei anni, prostituti, vittime di pedofili, ladri e terroristi. Ma il fatto è che Hussain, lungi dal fornire un'alternativa a questa situazione, vi si adegua: nel Terzo mondo solo pochi eroi, invece di arrangiarsi a sopravvivere, combattono. Hussain vende i bambini, li prostituisce per l'audience, gettandoli fra le braccia di sconosciuti avventori. Ovvero: la società cui appartiene rovescia sulle strade un milione e 200mila creature, li vedi aggirarsi alla ricerca di rifiuti nei mucchi di spazzatura, li incontri mentre lavorano 15 ore al giorno spingendo a mano carretti stracarichi o mentre si prostituiscono oppure quando cercano di vendere merce di contrabbando. Li vedi con gli occhi mangiati dalle mosche o buttati per terra malati di Aids, e ti rispondono che da anni non sanno dove sia la mamma. La risposta di darli via in tv con fragore di tamburi (oltretutto a dei signori che per quel che ne sappiamo hanno risposto a un quiz, e magari li sfrutteranno a loro volta) è una risposta altrettanto carica di disprezzo, di mancanza di rispetto per queste creature trattate come oggetti.
Hussain non ha colpa dell'immenso disastro di cui si rende complice. Ma la sua scoperta operazione mediatica è uno sprezzante, ennesimo sacchetto di plastica, una bottiglia di Coca-Cola vuota, un mucchio di spazzatura abbandonato, bucce putride nel panorama sgarrupato e polveroso del Terzo mondo. Un gesto di disprezzo e di disperazione nello stesso tempo. È una tessera di un mosaico che in questi decenni non siamo riusciti a guardare con quell'affetto fraterno che consente di porre delle condizioni, di essere severi nello stabilire delle priorità quando porgiamo aiuto.
Qualche giorno fa la lettera di un capo talebano, il cui gruppo aveva aggredito la piccola Malala solo perché voleva andare a scuola, osava spiegarle perché aveva deciso, scientemente e con dispiacere, di spararle in testa e di bruciarle la scuola. Un gesto di simpatia umana come quello di Hussain verso i bambini che dà in regalo. Il talebano quasi prometteva a Malala di sparare ancora se non avesse optato per una scuola islamica per ragazze, invece di insistere per l'istruzione generale. E intanto, gli americani hanno deciso di trattare con i talebani. Una lettera del genere dovrebbe dissuaderli da quel gesto irresponsabile. Il talk show di Hussain, che non è un talebano ma profitta di una situazione spaventosa, dovrebbe indurre gli europei a telefonare al governo pakistano e a chiedergli che intenzioni ha verso i suoi bambini, se vuole seguitare a esserci amico.

segue a pagina 12

di Fiamma Nirenstein

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